In Alto Adige da cambiare sono le teste

di Mauro Fattor


Mauro Fattor


Questa storia dei toponimi è una cartolina dal passato. Non solo: un passo dietro l’altro si viene delineando una sorta di prontuario degli stereotipi che non lascia presagire nulla di buono. Se si procede ad una lettura seconda, cioè ad una lettura dei sintomi, del non-detto e dei tic che stanno dietro le decisioni della giunta provinciale - ma forse sarebbe meglio dire della Volkspartei - si dispiega tutto il repertorio delle rigidità che inchiodano l’autonomia agli schematismi di sempre. E se Fitto stavolta è riuscito a sparigliare le carte, da Bolzano nessun colpo d’ali. Tutto secondo previsioni, con la novità di un dissenso palese e motivato da parte degli assessori di lingua italiana che siedono in giunta. Il quadro della società altoatesina disegnato dalle scelte della Volksparte è, in sintesi, lo stesso degli albori dell’autonomia con - primo degli stereotipi - lo Stato che difende gli interessi degli altoatesini di lingua italiana e la Provincia che difende la minoranza tedesca e ladina. Questo significano di fatto le nomine di Rainer, Willeit e Valentin nella commissione toponomastica e il no a Tommasini a Bizzo sull’inserimento di un rappresentante di lingua italiana.
Stereotipo numero due, figlio del primo: la Provincia non è la Provincia. La Provincia è la Volkspartei. Rainer, Willeit e Valentin sono infatti uomini della Stella Alpina, da sempre. Nessuna possibilità di pescare altrove.
Il terzo stereotipo è fresco di ieri con il Präsidium della Volkspartei che ribadisce come il contenuto dell’accordo con il ministro relativo agli obblighi di bilinguismo valga esclusivamente per i nomi di Comuni e frazioni.
Così viene ancora interpetata infatti la dizione «Ortschaften», cioè località, contenuta nella versione tedesca del documento firmato da Fitto, e questo nonostante sia siato ribadito più volte e in sedi diverse che l’applicazione dell’accordo deve essere calibrata sulla versione italiana del testo, molto più estensiva. Una ostinazione che sconfina in una consapevole doppiezza politica, dettata dal desiderio di giocare su più tavoli sfruttando ambiguità costruite a tavolino.
Oltretutto una versione minimalista, quella della Svp sulle «Ortschaften», filosoficamente non innocua. Il perchè è presto detto. Posto che la linea del partito di raccolta è quella di ridurre al minimo l’impatto della toponomastica italiana, optare per una versione bilingue che tocchi esclusivamente le località abitate è figlia di un’idea preconcetta e ben radicata, anche se teorizzata sempre un po’ sottovoce. È l’idea ricorrente che in fondo agli italiani bastino le città, i paesi, perchè quello è il loro orizzonte. Un orizzonte urbano, fatto di pochi riferimenti certi negli spazi in cui abitano e lavorano in quanto sostanzialmente indifferenti e disinteressati a ciò che accade intorno e al di fuori di quegli spazi. È la logica del fortino vista dall’altra parte. Non da dentro quindi, ma da fuori. Ed è l’idea di una comunità, quella di lingua italiana, che vive sul territorio ma non vive il territorio. Anzi che è estranea al territorio.
Questo, nella testa della Volkspartei, è all’origine del compromesso col ministro: vi diamo i nomi che vi servono, vi diamo quei nomi e voi state lì, non vi muovete. Il resto è roba nostra.
Alla fine l’istantanea della comunità italiana disegnata tra le righe della scelte politiche della Volkspartei, è sconfortante. Il sudtirolese italiano medio è uno che strizza l’occhiolino al duce (in quanto difende «le invenzioni di Tolomei»); che si mostra spaesato e confinato nelle città, che vive dentro fortini artificiali vissuti come bolle di italianità virtuale; che non ha diritto di rappresentanza in quanto rappresentato e difeso dallo Stato, da Roma. Tutto quello che non è comprimibile in questo modello fatica ancora enormemente a trovare spazio, anche e soprattutto nelle teste. Siamo fermi a Magnago insomma. In questo contesto anche le parole di Theiner sul superamento delle diatribe etniche, all’atto pratico finiscono col diventare un vuoto esercizio di retorica. Le teste, appunto, sono il vero problema. Lo statuto di autonomia ha un potenziale enorme, ma averne istituzionalizzato e codificato le modalità con il massimo delle garanzie formali non significa averne interiorizzato lo spirito e i contenuti. Questo è ancora un obiettivo lontano.

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