In Alto Adige si risparmia solo in cultura

di Giacomo Fornari


Giacomo Fornari


C’era una volta il paese del Bengodi della musica. Quel paese si chiamava Alto Adige. C’era una volta, appunto, ma forse domani non ci sarà più. Questo è quanto sembra di intuire in una fase delicata come è quella di una crisi economica che sembra essersi trasformata in una crisi di valori. I molti forestieri che bazzicavano le nostre terre, da Bolzano a Dobbiaco, dalla Val Gardena a Merano, hanno potuto osservare la capillare diffusione della musica, per non parlare poi di uno dei conservatori più apprezzati della Mitteleuropa, il “Monteverdi”, e degli istituti musicali che, assommati nelle diverse lingue, raccontano numeri robusti. Tra tedeschi, ladini ed italiani gli allievi sono poco meno di 30.000, mentre il personale coinvolto a vario titolo è di poco superiore alle cinquecento unità. La musica equivale quindi ad un’impresa medio-grande. Dati alla mano, lo stato di salute della musica classica in Alto Adige poteva essere paragonato a quello delle grandi metropoli: Vienna, Berlino, Milano, Londra, Salisburgo, Torino, Lione, Monaco di Baviera e Barcellona. A rendere questo piccolo miracolo culturale possibile i grandi investimenti del passato.
E ancora la profonda sensibilità della classe politica che, nella musica, ha visto una grande possibilità di espressione. Secondo il principio del “dimmi come suoni e ti dirò chi sei”, i gruppi linguistici hanno difeso e proposto in modo assolutamente pacifico i tratti distintivi dei propri repertori. Troppo lusso, forse. Ma alla base vi sono state delle scelte precise. In un’intervista ad “Amadeus” dello scorso novembre Renzo Caramaschi spiegava come Bolzano fosse la città con maggior investimento per cultura pro capite, spiegando anche come certi eventi, apparentemente costosi, avessero poi benefici sul bilancio e, quindi, positive ricadute sull’intera collettività. Difficile pensare quindi che in un simile contesto la musica possa essere considerata voluttuaria od accessoria. Nello “Stato”, Platone riteneva la musica base di ogni conoscenza. Egli, infatti, sosteneva che attraverso quest’arte fosse possibile imparare altro. E meglio. Con Platone è stata fondata l’idea non solo di un’educazione musicale in senso stretto, ma di un’educazione globale attraverso la musica.
Una riforma della scuola che non tenga conto di queste acquisizioni pedagogiche, considerate ovvie all’estero, rischia di frantumarsi dietro quel realismo ingenuo che vuole la scuola come una palestra di avviamento al lavoro. E’ chiaro che un liceo musicale può essere frequentato da un futuro medico o da un futuro avvocato che, attraverso la musica, avranno acquisito metodologie preziose sotto il profilo cognitivo. Sempre nello “Stato”, Platone riteneva indispensabile l’approccio estetico. In questo senso, la chiusura dimostrata in certi ambienti nei confronti della cultura classica può avere conseguenze importanti sotto il profilo culturale. Non che non si possa e non si debba riformare la scuola (liceo classico compreso). Ma è pur vero che prima di demolire un modello, bisogna sapere che cosa si vuole ottenere e perché. Forse il greco potrebbe non sembrare utile, ma io non potrei immaginare la mia vita senza.
Anche nella discussione di riforma degli Istituti per l’educazione musicale della Provincia autonoma, temporaneamente passato con il voto contrario dei due assessori italiani, è mancato e manca un tassello importante. Quello del metodo. All’inizio si è parlato di esigenze di risparmio di bilancio, di per sé comprensibili in una fase di crisi. Ma subito dopo si è scoperto il vaso di pandora, e cioè che risparmi su vasta scala si possono ottenere soltanto tagliando le spese non autofinanziate. In questo senso, l’unica voce è quella (non indifferente) degli stipendi. Una via, questa, che per fortuna nessuno vuole minimamente percorrere. Un’altra ipotesi capace di spiegare la riforma, era stata formulata in direzione di un miglior coordinamento con la scuola. Ma tra un miglior coordinamento ed un’integrazione tecnicamente impervia corre molta distanza.
La trasversalità del ruolo del personale docente degli istituti musicali, che copre utenze dai 2 ai 100 anni e in situazioni le più disparate, la difficoltà di gestione di complesse graduatorie statali, il possibile conflitto di interessi tra personale di tipo statale o ex-statale di addestramento e reclutamento diverso, più che creare un’ottimizzazione delle risorse potrebbe portare addirittura a possibili collisioni, a numerosi ricorsi rischiando di compromettere un meccanismo che ci sembrava perfetto. Forse troppo per poter durare all’infinito.
Ovviamente non è logico che tutto resti fermo come ai tempi della fondazione (1977) di queste strutture. Ma sembra meno utile che le cose vengano stabilite per legge, prima che ci si sia occupati dei veri problemi che ogni ristrutturazione porta giocoforza con sé. Vale quindi la pena di domandarsi se i possibili disagi ed il malcontento possano valere tanto quanto un’idea di riforma che piove improvvisa senza che se ne sia mai fatta parola. La storia insegna che riformare in modo condiviso è più facile che imporre i cambiamenti a comma di legge. Comunque sia a perderci, qui, è un’idea veramente platonica di stato che aveva fatto dell’Alto Adige un modello musicale all’avanguardia che, invece, ora sembra essere pericolosamente scalfito. Platone ci insegna che lo Stato nel quale l’arte è cibo dell’anima si rivela come il punto di incontro tra culture e civiltà diverse. Purtroppo Platone appare al momento irrimediabilmente lontano.

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