L'università da liberare


Paolo Campostrini


L’Università deve ancora capire cosa vuole essere. Per ora sembra schiacciata tra la vertiginosa complessità delle missioni di cui si fa carico (la Bocconi alpina, le facoltà trilingui) e un più realistico approccio alle necessità della terra in cui vive. Potrebbe provare ad essere libera, come le suggerisce il suo statuto. Potrebbe più semplicemente decidere di aprire le finestre e ascoltare cosa le chiede la gente che passa per strada. Avrebbe subito qualcosa di cui occuparsi. Bolzano, ad esempio. Che è una città che si muove a tentoni. Che vive una inquieta realtà interetnica ma che non trova nessuno che le indichi di quali schemi pedagogici dotare le proprie scuole per giungere ad un bilinguismo compiuto: va meglio l’immersione linguistica o l’insegnamento veicolare? E a quale età sarebbe bene iniziare a ragionare in due lingue? Gli istituti bolzanini annaspano, dibattono nei sottoscala, avviano sperimentazioni carbonare. Ma l’Università tace. E ancora. Bolzano e l’Alto Adige sono abitati da ragazzi con gli stessi problemi ma che si formano su libri dai contenuti contrapposti.
In cui Garibaldi e Hofer non si incontrano mai, dove la storia non è mai una ma due. Tuttavia l’Università continua a formare insegnanti che perpetueranno questa divisione identitaria «ab initio», perchè la scuola provinciale questo chiede.
L’anno hoferiano è trascorso senza che un aula magna della Lub sia stata messa a disposizione per almeno confrontarsi su una vulgata storica che è passata immune attraverso due guerre e tre regimi e che continua a transitare tra la gente senza che un approccio scientificamente e storicamente più critico provi almeno ad alleggerirla dei suoi immutati pesi identitari.
Bolzano non sente la sua Università perchà la sua Università non si fa sentire. Questo è il nodo. E la Provincia sembra sia sempre più interessata a marcare questo silenzio incrementando l’elitarismo delle «mission» Lub quasi temesse le sue possibilità di inserimento nei dibattiti che sistematicamente ci scuotono e che investono la cultura (la Lub che si smarca quando il Museion veniva aggredito intorno alla rana) e ancora l’apprendimento linguistico, la ricerca storica, la capacità del mondo intellettuale di supportare le scelte politiche.
Detto questo, resta quello che è stato costruito in questi dieci anni di incubazione controllata. E che è molto. Il rettore ci fa sperare quando dice che «il meglio del nostro patrimonio territoriale è la multiculturalità che tuttavia viene disperso». Speriamo di no. Contiamo che non sia lui a dimenticarsene. Ma per farlo l’Università non può sempre stare agli ordini. Deve diventare sgusciante, fantasmatica, inafferrabile; compiere incursioni quando meno se lo aspetta la Provincia. Essere complice della città in cui opera, fare uscire i suoi studenti all’aperto, suggerire soluzioni scientifiche alle annaspanti amministrazioni territoriali, affiancare le minoranze culturali e non correre in soccorso delle maggioranze politiche. Essere luogo di pensiero critico, come i chierici medievali annidati nelle facoltà bolognesi assediate dalla curia; aprire le sue aule ai dibattiti scomodi e non solo alle celebrazioni. Insomma essere libera. Questo ci aspettiamo dalla nostra Università. Per farci sentire meno soli













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