La memoria corta degli imprenditori

di Andrea Di Michele


Andrea Di Michele


Nei giorni scorsi hanno suscitato aspre polemiche le affermazioni di Sergio Marchionne, amministratore delegato del gruppo Fiat, sulle difficoltà di continuare a fare profitti in Italia, sulla scarsa produttività degli stabilimenti della Fiat italiani e anche sulle carenze della politica industriale nazionale.
Tutte affermazioni che contengono un amaro fondo di verità e che mettono il dito sulla piaga della crescente sofferenza delle imprese italiane sui mercati internazionali. Le politiche dei governi italiani non hanno certo brillato per lucidità e lungimiranza e scarsa è stata l'attenzione per il tema dell'innovazione e della competizione. Ma che di tale sofferenza siano responsabili anche gli imprenditori di casa nostra credo nessuno possa negarlo. Molta della nostra imprenditoria nazionale non investe in ricerca in maniera paragonabile a quanto avviene negli altri paesi economicamente più avanzati e sembra più interessata a costruirsi posizioni di rendita e a impegnarsi in settori semimonopolistici (dalle autostrade alla telefonia, ad esempio) piuttosto che a lanciarsi coraggiosamente tra i marosi della competizione globale. Per non parlare dei problemi legati al "nanismo" delle imprese italiane, sempre più relegate in settori arretrati, a scarso contenuto tecnologico e più esposti alla concorrenza proveniente dai paesi in via di sviluppo.
Storicamente, poi, la grande industria italiana, Fiat in testa, è cresciuta a braccetto con la politica, facendo dei rapporti con il potere di governo il grimaldello di cui servirsi per ottenere commesse, favori e finanziamenti. Il colosso automobilistico torinese è diventato tale anche grazie alle commesse miliardarie assicurategli dallo Stato italiano, ai finanziamenti a fondo perduto concessi per la costruzione di nuovi stabilimenti, agli enormi investimenti statali per la costruzione di strade e autostrade su cui far correre le sue automobili (a scapito, è noto, della qualità della rete ferroviaria). E' ovvio, quindi, che dalle affermazioni di Marchionne, secondo cui l'Italia non conterebbe ormai più nulla per i destini della Fiat, ciò che emerge è prima di tutto il sottofondo di ingratitudine verso un Paese che dalla Fiat ha avuto molto, ma alla quale molto di più ha dato.
In queste settimane, il nodo dei rapporti tra imprenditoria privata e politica è tornato d'attualità anche in Alto Adige. Si moltiplicano le voci degli imprenditori locali che alla Provincia chiedono una politica fatta di drastici tagli alla spesa pubblica, in primo luogo ai capitoli del personale e della sanità. Vorrebbero un settore pubblico più leggero e più efficiente, più simile alle imprese, alla loro flessibilità e capacità di reazione di fronte alle difficoltà internazionali. A un mondo dell'economia capace da solo di rispondere con efficienza alle sfide della crisi internazionale, si contrapporrebbe, in questa lettura, una macchina amministrativa elefantiaca e sprecona. Anche qui bisognerebbe forse recuperare un po' il senso dell'equilibrio. Non esiste probabilmente in Italia un tessuto economico che negli ultimi decenni abbia goduto del sostegno pubblico più di quello altoatesino. Il turismo, il commercio, l'agricoltura, i servizi e anche l'industria hanno ottenuto finanziamenti altrove impensabili. In uno studio di una decina di anni fa curato dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato e dedicato agli aiuti regionali alle imprese, si affermava testualmente che, prendendo in considerazione solo il Nord, "le Regioni a Statuto speciale concedono alle imprese un ammontare di fondi, in rapporto al valore aggiunto e alla quota di investimenti fissi, piuttosto elevato se confrontato con gli stanziamenti concessi dalle Regioni a Statuto ordinario territorialmente contigue". Spostando il confronto con le regioni del Centro e del Sud, tale disparità risultava ancora più accentuata, tale da prefigurare veri e propri effetti distorsivi della concorrenza. In questo quadro, il Trentino Alto Adige si distingueva come la regione in cui "le politiche di agevolazione alle imprese sono più significative" e il cui trend, a differenze delle altre realtà locali, era crescente. L'imprenditoria locale, dunque, difficilmente oggi può presentarsi come paladina della concorrenza, esempio di virtù economiche, mai debitrice di favori concessi dalla Provincia. Che l'amministrazione pubblica abbisogni ora di interventi di razionalizzazione, anche a causa del generale calo delle risorse, appare inevitabile e sensato. Ma nel farlo non dimentichiamoci che in questi decenni, a succhiare dalle mammelle della florida mucca autonomista non vi erano solo i dipendenti pubblici ma anche, ben più assetati, i nostri imprenditori, oggi inflessibili campioni del libero mercato.













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