La prof che scuote le istituzioni: sbaglia chi non accoglie

L’ex insegnante ha ospitato il giovane afgano Alidad Shiri «Nessuno deve essere abbandonato e dormire in strada»


di Francesca Gonzato


BOLZANO. Gina Abbate è stata un pioniere dell’accoglienza dei privati ai richiedenti asilo. L’ha fatto undici anni fa, quando i numeri erano così bassi, che quasi non se ne parlava. C’è questa professoressa in pensione di Merano, dietro la storia importante di Alidad Shiri, il giovane fuggito dall’Afghanistan a 15 anni, entrato in Italia nascosto sotto un Tir, che in Alto Adige ha iniziato la sua nuova vita. Insieme hanno scritto il libro di Alidad (è un collaboratore del nostro giornale), «Via dalla pazza guerra. Un ragazzo in fuga dall’Afghanistan» (Il Margine editore).

Gina Abbate ha iniziato a ospitare nella sua casa Alidad Shiri a partire dai 18 anni, quando il ragazzo ha dovuto lasciare la struttura protetta. «Il suo domicilio è ancora a casa mia, anche se studia a Trento. Il legame c’è e resterà».

Gina Abbate ha lanciato un appello sull’accoglienza alle istituzioni altoatesine, che diventa un invito ai singoli cittadini «a fare ciò che è possibile, anche piccoli gesti sono importanti».

Per l’appello ha scelto il titolo «Diamo segnali di umanità». Il tema sono i migranti al di fuori del circuito ufficiale dell’accoglienza: «E'molto grave il contrasto tra una città e una Provincia sostanzialmente ricca e queste poche decine di persone (il numero sappiamo che è sempre fluido ma non esagerato) che non hanno la minima assistenza. Anche Bolzano è un porto di mare, anche se non sul mare, dove è dovere civico e morale dare la prima accoglienza a chi cerca rifugio, a chi è di passaggio», ha scritto Gina Abbate. Questo l’appello: «Occorre soccorrere chi è nell'emergenza del bisogno, fornire una prima accoglienza umana, dignitosa e intelligente, capace di creare sinergie, perché ci sia un seguito, programmando, prevedendo. La nostra intelligenza e umanità oggi è chiamata a tutti i livelli a rispondere positivamente».

Perché ha voluto lanciare un appello alle istituzioni?

«Sono rimasta colpita da frasi, ad esempio del presidente Kompatscher, secondo cui bisogna stare attenti a non diffondere il segnale che possiamo aiutare tutti. E se fossimo a Lampedusa? Chi arriva, c’è.Non possiamo fare finta che non esistano. Non possono esserci persone sulla strada, in un Alto Adige pieno di alberghi chiusi o semi vuoti in attesa della stagione turistica».

Le è stata tra ai primi. Oggi diverse famiglie danno una mano, aprendo le loro porte ai richiedenti asilo.

«A me è successo per caso. Andata in pensione, avevo dato la disponibilità alla mia ex scuola per dare una mano con l’italiano ai figli degli immigrati. Ho conosciuto così Alidad. Un po’ alla volta ho conosciuto la sua storia, i genitori uccisi, la fuga, l’arrivo da noi. È nata l’idea del libro. Ha imparato l’italiano scrivendolo. Dopo i 18 anni l’ho ospitato a casa. Senza più la protezione sociale, avrebbe dovuto cercarsi un lavoro per mantenersi, ma voleva studiare. L’ho ospitato perché potesse seguire il suo sogno. Mi considero una specie di madre per lui, pur lasciandogli la libertà di giovane uomo. Oltre a me, c’è stata la famiglia Duregger fondamentale per Alidad. Non per forza si deve creare un legame così forte. Ogni famiglia può fare qualcosa, anche solo invitare a casa per cena una volta alla settimanaqualcuno dei ragazzi ospitati nelle strutture. Si può costruire un legame un po’ alla volta. L’importate è non essere soli, essere in rete con altre famiglie o associazioni. Bisogna essere solo attenti alla vita, lasciare emergere l’umanità. Tutto, ma non l’indifferenza verso chi si lascia alle spalle situazioni terribili».

Cosa le ha dato questa esperienza?

«Tanta gioia e il senso di poter essere un po’ di aiuto, che attenua il disagio che proviamo di fronte all’enormità di tanto dolore. A sua volta Alidad farà qualcosa per aiutare gli altri. Le persone che arrivano hanno la speranza, un sentimento che abbiamo perso».

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