La qualità e la sfida delle imprese

di Sergio Baraldi


Sergio Baraldi


Durnwalder, invece di pensare alla modernizzazione dell’Alto Adige, pensa a prendersi un canale Rai. Theiner, invece di riformare la sanità, sembra intenzionato a sfasciarla. I toponimi, invece di diventare luogo di un confronto e incontro pubblico tra tedeschi e italiani per sanare vecchie ferite, diventano una trattativa riservata tra un presidente che agisce come il presidente solo dei sudtirolesi e un ministro che si muove come ministro di Berlusconi invece che degli italiani. In questi giorni la politica offre un pessimo spettacolo, soprattutto la Svp appare prigioniera di una tattica di basso profilo. Le elezioni del 2013, evidentemente, fanno paura.

Eppure le buone notizie non mancano. E una arriva dal mondo dell’economia: si tratta del progetto lanciato dal presidente della Camera di Commercio Ebner sul futuro dell’Alto Adige. Un progetto che apre una pagina nuova nel dibattito sul modello di sviluppo del territorio. Non a caso, il presidente degli industriali Pan, che aveva lanciato un suo manifesto in undici punti, si è detto subito d’accordo: i due piani convergono, sono allineati, rimandano l’uno all’altro. Indicano il medesimo percorso. La svolta non è segnata tanto dai contenuti, che riprendono e arricchiscono temi già trattati nei mesi scorsi dalla Camera di Commercio e dagli imprenditori. La novità emerge dalla loro sistematizzazione in una visione di ampio respiro che prefigura un intervento strutturale. L’economia e il suo vertice mettono a disposizione della società una strategia per il futuro. Proprio la strategia è la risorsa che manca in Alto Adige. La politica, finora, è stata capace di mettere in campo un’azione amministrativa frammentaria, senza un orizzonte che non fosse quello etnico.

La seconda novità arriva dal metodo che la Camera di Commercio utilizza: un ampio confronto con le imprese, con la società civile per raccogliere proposte, accompagnato da una serie di incontri con i giovani nelle scuole. Sembra delinearsi la costruzione “dal basso” di un modello di sviluppo, ancorato al radicamento territoriale delle imprese, ai tanti soggetti sociali, sindacati compresi. Così mentre la politica appare carente di trasparenza o fatica ad ascoltare i cittadini, se non sintonizzandosi quasi sempre sulla lunghezza d’onda elettorale, le istituzioni economiche si aprono all’ascolto della società. Infine, il quadro che esce dal lavoro è un’idea di futuro legata alla storia del territorio, ma decisamente indirizzato verso la modernità. Il cambiamento è la leva per realizzarlo. Anche in questo caso il confronto con la politica è inevitabile: assorbita dalla ricerca di consenso, la politica tedesca e italiana è lenta, manca spesso di coraggio, s’impegna poco per preparare la società al futuro.

L’economia, invece, sembra prefiggersi esattamente quest’obiettivo. Ebner indica i cinque pilastri dello sviluppo del nostro territorio: plurilinguismo, innovazione, raggiungibilità e infrastrutture, formazione continua e coesione sociale. Pan ha i medesimi obiettivi e offre un’interessante lettura della connessione che esiste tra di essi, al punto che potremmo immaginarli come un network per la crescita. Va detto che non c’è spirito polemico nei confronti della politica da parte di Ebner o Pan, ma la loro proposta, oggettivamente, s’impone con forza all’ordine del giorno.

La domanda è: Ebner e Pan agiscono in vista solo dell’interesse delle imprese? O riescono a rappresentare l’interesse generale? A mio avviso, la loro piattaforma per assicurare il benessere futuro intercetta con precisione ciò che alla società serve. Nel fare il proprio interesse, in questo caso, gli imprenditori difendono anche l’interesse generale. C’è da augurarsi che il dibattito sia ampio e i risultati diventino la bussola che orienta l’agire sociale. I lettori sanno che il nostro giornale sostiene che la modernizzazione è la Grande Riforma da attuare sul piano economico-sociale, alla quale non potrà che corrispondere una riforma dell’Autonomia. Lo sviluppo che si guarda nello specchio del diritto e dei diritti; la capacità di affrontare i grandi cambiamenti in atto (globalizzazione, rivoluzione tecnologica, flussi migratori, aumento della vita media): ecco la sfida che tutti, italiani tedeschi o ladini, abbiamo di fronte.

Se i vertici politici e istituzionali volessero misurarsi con un progetto degno della politica, questo è quel progetto. Per comprendere l’importanza del cambio di marcia chiesto dall’impresa, occorre partire da una riflessione implicita nell’iniziativa. Se c’è necessità di una strategia, vuol dire che, di fronte ai grandi fenomeni che ci stanno investendo, la nostra società non è sufficientemente pronta per rispondere con maggiore produttività, nuovi investimenti, e soprattutto nuove idee. Il che non vuol dire che il giudizio sul passato sia negativo: l’Alto Adige di oggi raccoglie alcuni successi di cui essere soddisfatti. Ma il presente non si adegua con la velocità e la competenza necessarie per stare al passo delle trasformazioni europee e globali.

Il ritardo si coagula più nella politica che nella società, ma nel complesso la strategia di Ebner chiede a tutta la collettività l’avvio di un processo evolutivo che interpelli la responsabilità di ciascuno. Nessuno può sentirsi escluso, perché la sfida è portata su un punto nevralgico: la qualità. Se vogliamo andare al cuore del progetto, il vertice del mondo economico indica come cruciale l’investimento in conoscenza, di conseguenza la necessità di investire sulla qualificazione di quello che gli economisti chiamano il “capitale umano” e il “capitale sociale”. In prima linea con le imprese ci sono la scuola e l’università dove si forma il “capitale umano”. Per questa ragione il presidente Ebner insiste sul fatto che il plurilinguismo è la chiave del domani.

Il “capitale umano” siete voi, i vostri figli: il patrimonio di abilità, capacità tecniche, conoscenze dei cittadini. In una parola: il bagaglio culturale delle persone. Conoscenze linguistiche, conoscenze tecnologiche, capacità cognitive, sono le armi per mettere le persone, le imprese, le istituzioni, la collettività in grado di reggere ai cambiamenti. Non c’è solo un aumento della produttività delle imprese in questione. C’è anche quello, ma il punto è che un più elevato livello d’istruzione, di competenze linguistiche e tecnologiche consentirà ai cittadini di vivere meglio, alle imprese di crescere su mercati più grandi e difficili, alla società di avere in dote i talenti giusti nell’aspro confronto tra territori per acquisire quote di ricchezza. Forse per la prima volta, il mondo privato mette al centro del modello del futuro un valore sociale.

Anche perché all’investimento in “capitale umano” deve collegarsi quello in “capitale sociale”, vale a dire la capacità dei diversi attori sociali di cooperare, di creare un tessuto connettivo e relazionale, di fare rete, e di avere fiducia in questo lavorare, progettare e vivere insieme. Si capisce, quindi, perché l’impresa spinga su una scuola convertita rapidamente al plurilinguismo, che arricchisca i giovani di nuove competenze e sia specchio di un’integrazione vera tra italiani, tedeschi e ladini. E’ guardando al futuro che vorremmo che possiamo meglio capire il nostro presente e i suoi ritardi. Il progetto non parla di sviluppo solo come crescita economica. E’ vero, la crescita privilegia l’accumulazione, produce benessere, è indispensabile; ma lo sviluppo è un concetto più ampio, che comprende il mercato, ma è incentrato anche su altri capitoli. Vi rientrano la riduzione degli squilibri sociali, una migliore distribuzione dell’accesso alle risorse, la coesione sociale. E un altro fattore qui decisivo: l’ambiente e il paesaggio come risorse.

Non a caso le imprese insistono per uno sviluppo compatibile con l’ambiente “intatto”, come dicono, da preservare. Di conseguenza, l’economia punta a integrare non a dis-integrare, anche perché solo così può trasformarsi e non perdere la sfida dei mercati internazionali. Occupata in vecchie questioni e vecchi riti, una politica miope non vede avanzare la svolta: la sfida della qualità e il grande movimento di valorizzazione di tutte le risorse del territorio, innanzitutto gli uomini e le donne qualunque lingua parlino. Qualità delle persone, delle aziende, delle istituzioni, del sistema. Presto emergerà il tema collegato del merito, inteso non solo come talento innato degli individui, ma anche come azioni e impegno profusi correttamente. Queste osservazioni sono sufficienti per farci comprendere la carica riformatrice del progetto della Camera di Commercio e degli industriali.

Esso fa dipendere il “cosa” dello sviluppo dal “per chi”. Il passaggio si può compiere solo sulla base di valori condivisi dalla comunità. Le imprese dovranno mettersi in gioco e accettare il cambiamento al loro interno, anche sul piano della dimensione (un punto sul quale il rapporto sembra reticente). Non sarà semplice: le aziende più piccole faticano a adattarsi al nuovo scenario. Ma la verità è che questa riforma avrebbe dovuto pensarla la politica. Anche perché il progetto del mondo economico si muove nella direzione giusta, ma resta necessariamente incompleto. Un cambiamento strutturale non può non rimandare a una nuova stagione dell’Autonomia e dei diritti individuali: una società che alza il suo livello di qualità sarà composta da cittadini che vogliono riappropriarsi di spazi, di possibilità d’intervento e decisione. E questo più che mai sarebbe compito della politica. Se c’è batta un colpo.













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