La tolleranza autonomista

di Francesco Palermo


Francesco Palermo


Qualsiasi forma di tutela delle minoranze presenta un paradosso insanabile. O scompone e suddivide l’ambito territoriale, per cui chi in un contesto è minoranza è maggioranza in un altro, ed impone agli altri il suo potere, o abbandona qualsiasi logica maggioritaria mettendo i gruppi sullo stesso piano, derogando.
Derogando, s’intende, al principio democratico. In altre parole: o si sostituisce una maggioranza ad un’altra, invertendo semplicemente l’ordine dei fattori di dominazione, o si comprime il principio base delle democrazie occidentali per cui la volontà della maggioranza deve prevalere, nel rispetto di alcuni principi inderogabili. Il sistema disegnato dallo Statuto di autonomia rappresenta un compromesso tra questi due estremi.
In alcuni casi equipara i gruppi indipendentemente dalla consistenza numerica, come nel caso delle commissioni paritetiche, della composizione del Tribunale amministrativo, o della rotazione alla Presidenza del Consiglio provinciale. In altri attenua il fattore numerico a vantaggio del gruppo meno consistente, come quando prevede la composizione della Giunta provinciale in proporzione alla consistenza dei gruppi linguistici in Consiglio, o l’obbligo di rappresentanza nelle giunte comunali dei gruppi linguistici che abbiano almeno due consiglieri. Nella gestione dell’ordinario, tuttavia, e pur con una serie di importanti paletti, le decisioni si prendono a maggioranza. Questo significa che il rischio di “prevaricazioni” da parte delle maggioranze (di quella nazionale per le materie di competenza statale, di quella provinciale in ambito provinciale, di quelle comunali a livello comunale - si pensi al referendum su Piazza Vittoria) è un elemento presente nel sistema, non necessariamente una sua violazione. Il rispetto per le posizioni minoritarie e il loro potenziale diritto non è sempre imposto dallo statuto.
Va costruito. Non è sempre obbligatorio, spesso è solo opportuno. Esistono importanti limitazioni contro il rischio di abusi: chi si sente discriminato, a livello individuale o di gruppo, può impugnare le decisioni, alcune materie sensibili sono sottratte al principio maggioritario, esistono diritti di veto, lo statuto stesso non è modificabile unilateralmente, ci sono garanzie internazionali. Questi strumenti giuridici sono però dei freni di emergenza. E come tali sono essenziali per creare sicurezza, ma la loro efficacia è inversamente proporzionale all’uso che se ne fa. Chi viaggia in treno è tranquillizzato dalla presenza della maniglia di emergenza, dell’estintore e del martello per rompere il vetro, ma se questi vengono usati in continuazione il convoglio non viaggia più. Il sistema di autogoverno e convivenza creato dallo statuto pone tutte le condizioni per il buon funzionamento del treno dell’autonomia, ma non può disciplinare i comportamenti di tutti i passeggeri, né del personale di bordo. Secondo il noto principio psicologico, un luogo pulito, ben tenuto e funzionante viene normalmente rispettato e lasciato in buone condizioni da chi lo frequenta, mentre uno sporco, rovinato e poco accogliente tenderà a indurre comportamenti meno rispettosi (si pensi, ancora una volta ai treni, e stavolta non metaforicamente). Lo statuto ha creato un treno pulito, e la gran parte dei passeggeri e del personale di bordo lo rispetta. Ma se ci salgono degli hooligan c’è poco da fare. Indicativo è ad esempio il caso della lettera inviata da un asilo in lingua tedesca ai genitori di bambini italofoni per sconsigliare l’iscrizione dei piccoli alla scuola elementare tedesca, causa insufficienti conoscenze linguistiche. Nel merito non c’è nulla di male. La scuola deve pensare al bene del bambino e dare consigli ai genitori. E non può esserci dubbio che la lettera sia frutto di un problema reale. In termini di tolleranza il problema è semmai il linguaggio utilizzato. Sarebbe cambiato il messaggio se invece di sconsigliare l’iscrizione alla scuola elementare tedesca si fosse consigliato un serio potenziamento linguistico dei bambini prima di una eventuale loro iscrizione alla scuola primaria in lingua tedesca? Nella sostanza no. Ma sotto il profilo della tolleranza e del rispetto delle sensibilità di ciascuno - compreso il complesso di calimero della comunità italiana, giustificato o meno che sia - avrebbe fatto la differenza. Parimenti, Roma (ben più degli italiani dell’Alto Adige, che questo percorso l’hanno largamente compiuto) non dovrebbe trascurare le sensibilità della minoranza sudtirolese. Per la quale guardare all’Italia non può essere ritenuto naturale, ed occorre “qualcosa di più” perché questa minoranza possa sentirsi compiutamente (anche) italiana, come auspicato dal Presidente Napolitano. E questo “di più” sono la tolleranza e la comprensione per le esigenze particolari. I presunti “privilegi” dell’autonomia sono il prezzo della tolleranza necessaria verso le minoranze.
Ma sono soprattutto le piccole azioni a creare la tolleranza necessaria. La politica, coi suoi comportamenti e il suo linguaggio, è la prima responsabile di questa tolleranza. C’è da augurarsi che continui e si intensifichi il dialogo della SVP con gli italiani, che passa anche dall’intervista di Durnwalder a questo giornale. Ma una grande responsabilità grava anche sugli amministratori, sulla società civile, sui singoli cittadini. Qualcuno dica all’amministratore delegato di Trenitalia che il suo paventato divieto alle fermate dei treni austriaci contribuisce a staccare l’Alto Adige dall’Italia molto più dei referendum autodeterministici della Klotz.

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