Musulmani e cristiani insieme in chiesa

A Don Bosco il referente de «Il Dialogo» invitato dal parroco a parlare dal pulpito: «Nessuna giustificazione per le stragi»


di Alan Conti


BOLZANO. Si aggiusta gli occhiali e lì, davanti al sagrato della parrocchia di Don Bosco, Hamam Yahia si ferma a parlare di religione e ferite, educazione e paura.

Da 30 anni è a Bolzano, lontano dalla sua Tunisia, ed è il referente dell’associazione islamica «Il Dialogo», che conta cinquanta iscritti e una quota di partecipanti tra i 300 e i 400 ai vari appuntamenti organizzati in via Torino. Ieri ha accettato l’invito del presidente nazionale dei Giovani Musulmani Nadia Bouzekri rivolto ai fedeli musulmani: «Partecipiamo alla messa domenicale dei cattolici». Una mano tesa dopo Nizza, dopo Saint Etienne du Rouvray, dopo Ansbach, ma anche dopo Aleppo e l’Afghanistan. «Una mano doverosa», dice con grande tranquillità prima di essere invitato sul pulpito dal parroco don Giampaolo Zuliani per un messaggio comune di pace e fratellanza, «perché siamo anche noi delle vittime di quello che sta accadendo. Per questo abbiamo deciso di andare ciascuno nella parrocchia del proprio quartiere. Per dire che ci siamo dappertutto e che siamo a favore di una società che convive, dialoga e si capisce». Inevitabile che le parole conducano fuori dai nostri stretti confini. La questione è mondiale. «Sono stato in Francia. Ritengo che per uscire da questa crisi sia necessario pensare ai giovani. All’educazione che diamo loro. Se crescono con dei principi chiari, di rispetto della propria religione e della vita di qualsiasi essere umano, allora possiamo contrastare la violenza. Noi siamo adulti e abbiamo avuto una crescita di un certo tipo. Ripudiamo il fondamentalismo violento per cultura. Ci sono, però, giovanissimi che rischiano di trovare una risposta o del fascino in questo. Lì dobbiamo intervenire, lì dobbiamo riuscire a far capire che si tratta di qualcosa di orrendo». Il direttore della moschea Yahya di Saint Etienne du Rouvray ha deciso di non concedere la sepoltura ad Adel Kermiche, l’assassino del sacerdote Jacques Hamel. Un gesto che impone una riflessione. «È difficile dare una lettura di questo», sussurra Yahia prima di fermarsi qualche secondo a riflettere, «ma devo dire che ha fatto bene, anche da un punto di visto dell’interpretazione religiosa. Mi spiego: l’islam è un patto con i profeti e non esiste alcuna incitazione alla violenza o agli omicidi. Nel momento in cui qualcuno decide di compiere certi crimini, rompe questo patto. Si pone al di fuori di questo atto di fede».

A Bolzano la comunità islamica è numerosa, ma spesso si ha la sensazione che sia quasi sottotraccia. «Abbiamo deciso di non mettere alcuna nazionalità come requisito per fare parte della nostra associazione. Siamo, appunto, un gruppo di persone accomunate solo dalla fede e dalle sue tradizioni. Saremmo disonesti a lamentarci della libertà che questa terra ci concede. Possiamo esercitare il nostro culto senza alcuna difficoltà né resistenza. Se posso fare una piccola critica, mi permetto di dire che ogni tanto ci sentiamo lasciati soli dalle istituzioni. Ci concedono gli spazi e le opportunità, certo, me raramente ci legittimano pienamente e pubblicamente». Forse c’è anche qualche timore “politico” in questo atteggiamento. «Non c’è motivo di avere certe remore. Anzi, noi abbiamo tutto l’interesse ad avere il massimo dialogo e la massima apertura perché da queste violenze usciamo doppiamente vittime. Da una parte questi criminali innervosiscono il clima verso tutti gli islamici e dall’altra, molto più concretamente, non guardano in faccia nessuno. Ammazzano anche i nostri bambini».

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