«Noi, una vita tra le bombe»: gli esperti del Genio guastatori

Il comandante Giorgio Colombo: "Per noi il peggio sono le spolette a lungo ritardo chimico". A tremila metri sullo Stelvio sono stati ritrovati in una caverna cento colpi d'artiglieria della prima guerra mondiale


di Paolo Cagnan


BOLZANO. Sono oltre cento colpi d'artiglieria - «proietti», a voler essere precisi - con i calibri che vanno dai 60 agli 82 millimetri, custoditi in casse da cinque-sei chili ciascuna: in tutto, fa un quintale abbondante di tritolo nascosto in una grotta naturale lassù sul passo Tuckett, a tremila metri di quota sullo Stelvio, versante altoatesino.

«Dovremo tirarli fuori di là in qualche modo», sintetizza con pragmatismo militare il maggiore Giorgio Colombo, artificiere capo del secondo Reggimento del genio guastatori. Se ne è già parlato, a livello di prefettura: quel munizionamento per cannoni risale alla prima Guerra mondiale, è custodito in casse e potrebbe deflagrare. Certo, ci sono le sicure, ma vatti a fidare... Bisognerà far esplodere tutti quei colpi sul posto, mettendo nel conto l'onda d'urto e garantendo quindi la chiusura dei molti sentieri sulle pendici: guai a passare da quelle parti, mentre il tritolo o il plastico «moderno» - altri 20-30 chili - faranno saltare gli esplosivi di quasi un secolo fa. Oppure, seconda opzione, si tratterà di imbragare gli ordigni e portarli altrove con gli elicotteri dell'esercito.

Anche nella zona del passo Lago Gelato ci sono vari residuati bellici da recuperare: è una delle linee del vecchio fronte, non si sa mai che a qualche cocciuto «recuperante» venga in mente d'andare a caccia di reperti e mettersi nei guai. Vero è che i colpi d'artiglieria custoditi in deposito - nel caso in specie, in casse - sono potenzialmente meno pericolosi di quelli sparati e non esplosi. Riemersi il più delle volte per via dello scioglimento dei ghiacciai, con le loro spolette che fanno ammattire gli artificieri. Sono una quindicina, quelli agli ordini del maggiore Colombo.

Il Genio guastatori dipende dalla Brigata alpina Julia, ha sede nella caserma Battisti di Trento e dispone di circa 600 effettivi che si districano abitualmente tra missioni internazionali (specializzati nel superamento dei campi minati) e italiane, come la ricostruzione post-terremoto in Abruzzo.

«In tutta Italia - racconta Colombo - i nostri undici reggimenti di bonifica fanno qualcosa come 4000 interventi all'anno». Durante la seconda guerra mondiale, l'asse del Brennero era strategico per gli approvvigionamenti di truppe e materiali tedeschi: per questo, i bombardieri anglo-americani erano di casa tra Rovereto e il Brennero. Copione tristemente classico: prima arrivava «Pippo» il ricognitore, poi il cielo si oscurava, letteralmente.

Le «fortezze volanti» sganciavano il loro carico di morte e distruzione lungo la ferrovia, sopra ponti e stazioni. Bombe da mille libbre, il che fa oltre 450 chili di peso, in genere suddivisi equamente tra il tritolo pressato all'intero e l'acciaio dell'involucro. Se andava bene, se cioè a sganciare non erano i bombardieri ma gli aerei da caccia, i «confetti» erano la metà, attorno alle 500 libbre.

«Ci potevano essere almeno tre ordini di motivi per i quali una bomba non esplodeva», cerca di sintetizzare Colombo. La sicura finale, ad esempio, non si sfilava. Oppure, la bomba batteva al suolo di pancia, a causa del malfunzionamento del congegno che avrebbe dovuto farla picchiare al suolo in verticale; o ancora, l'ordigno veniva sganciato a bassa quota: troppo bassa per poter dare il tempo all'elica di girare sino ad esaurimento e armare così la spoletta. Per farla breve: con tutte le bombe «liberate» a quell'epoca, ovvio che più d'una non esplodesse.

Ma chi pensa che la linea del Brennero sia copiosamente disseminata di «sorprese» ignora la statistica nazionale: «Ci sono aree ben più problematiche, come la zona di Treviso dove passava la linea del Piave. Oppure la linea Gustav, nel centro Italia: Frosinone, Latina, Chieti. O ancora quella gotica, con Bologna e l'Appennino».

Le bombe d'aereo saltano fuori così, quasi sempre per caso. Una pachera impegnata nello scavo di un cantiere o nella risistemazione di un alveo fluviale urta un qualcosa, che per fortuna in genere non esplode. Ed ecco la sorpresa. Viene quasi sempre dal cielo, a meno che non si tratta di colpi d'artiglieria o della contraerea tedesca, la celebre Flak, che dalle montagne sparava gli 88 millimetri sperando di centrare qualche bombardiere in transito, nel mucchio, e ogni tanto - raramente, a sentire gli storici - ci prendeva.

Alla fine, diventa routine anche un mestiere rischioso come quello dell'artificiere. Ti avvisano, tu vai sul posto, metti in sicurezza la zona e poi esegui un primo ceck-up dell'ordigno. «Cerchi subito di analizzare la spoletta - spiega Colombo - perché è da là che vengono i problemi». Se è del tipo a ritardo chimico, sono guai. Se è invece è per così dire tradizionale, in genere la si rende inoffensiva.

Il dubbio principale è sempre lo stesso: farla brillare sul posto o trasportarla altrove? In genere, si propende per la seconda ipotesi. Anche perché quasi sempre i ritrovamenti avvengono in aree fortemente antropizzate, e poi l'onda d'urto - per quanto «soffocata» - di un'eventuale esplosione tirerebbe giù le case. Dunque, la bomba adeguatamente imbrigliata la si trasferisce in una cava. La si adagia in un cratere profondo anche cinque o sei metri, la si ricopre di terra, la si isola - quello che i tecnici chiamano «barricamento» - per poi farla brillare a distanza. Impossibile evitare l'onda sismica dovuta alla pressione - attutirla, questo sì - ma almeno si scongiura l'effetto scheggia, che in condizioni normali si irradierebbe sino a 1200 metri di distanza. Oppure si rimuove la spoletta e la si fa brillare sul posto: appena due o tre etti di esplosivo, poca roba.

Certo, se la spoletta è di quelle a ritardo chimico, è tutt'altro paio di maniche. «Quelle di cui parliamo erano bombe d'aereo - spiega Colombo - programmate per esplodere tra le 12 e le 154 ore dopo il loro lancio. Si utilizzavano per bombardare gli aeroporti e lo scopo era quello di creare il panico ed evitare che qualcuno si avvicinasse all'area».

Chiaro, no? Una bomba inesplosa, se proprio non prendi a calci la spoletta, difficilmente deflagrerà da sola. Ma ad un «gioiellino» così, chi mai osa avvicinarsi? Sistema complesso, oltreché ingegnoso: un'ampolla d'acido che corrode un disco di celluloide che non trattiene più il percussore e... bum Una bomba così, l'hanno trovata a Fundres (alta Pusteria) nel settembre scorso. L'hanno neutralizzata, ma senza riderci su tanto. Ora tocca alla sua «sorellina» di Rovereto, sgombero già programmato il 24 di questo mese. E poi chissà quante altre, ancora... Lo scorso anno il Genio è intervenuto 70 volte in Trentino, 30 in Alto Adige, 40 nel Bellunese.

(11 gennaio 2010)













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