Nomi, dopo l'intesa serve un ideale

Doveva essere un grande accordo, si sta rivelando un piccolo accordo


Sergio Baraldi


Doveva essere un grande accordo, si sta rivelando un piccolo accordo. Molti nostri commentatori ne danno un giudizio negativo, compiendo un’analisi precisa, motivata, delle insufficienze dell’intesa sulla toponomastica. In effetti, il minimo che si possa dire è che la soluzione non solo appare al di sotto delle attese, forse non possiamo neppure parlare di soluzione visto che, come spiega il professore Di Michele, i conflitti sono stati trasferiti alla commissione, se i nodi non saranno sciolti, la questione rimbalzerà di nuovo sul tavolo della politica con i suoi tempi lunghi Eppure, nonostante le analisi siano convincenti, è difficile liberarsi dalla sensazione che molte verità sommate non costituiscano”la” verità. Il tutto non sempre risulta dall’addizione delle parti, è qualcosa di più. Così, per quanto l’accordo appaia ambiguo, squilibrato, giuridicamente claudicante come ha dimostrato il prof. Palermo, esso può ancora rappresentare per l’Alto Adige qualcosa di più. Anzi, è proprio il suo essere più un atto in potenza che compiuto, a renderlo utile a tutti, italiani e tedeschi. Perché? Perché la gestione del dopo può trasformarlo in ciò che non è, ma dovrebbe essere: il codice del passaggio a una convivenza più consapevole e matura. L’accordo sui nomi rappresenta, infatti, la prova generale di quello che l’Alto Adige potrebbe diventare.
Prova generale riuscita male finora. Ma la coscienza di questo pericolo dovrebbe spingere tutti gli attori a riparare agli errori, a riempire i vuoti, a superare le rivincite. Perché se l’accordo fallisce, fallisce la politica. E se la politica fallisce, la sua società, noi italiani e tedeschi e ladini, siamo sconfitti con essa. Purtroppo, l’accordo è il risultato di due debolezze che s’incontrano.
La debolezza italiana del governo, che ha aperto il fronte come se volesse chiudere i conti con le pretese della popolazione di lingua tedesca, e ha finito cercando di guadagnare un margine di manovra per Berlusconi in Parlamento con la pattuglia della Svp. Partito per fare la guerra, Fitto è stato costretto dai problemi della maggioranza di centrodestra a siglare una pace che sembra uno scambio. Un ritratto coerente del governo Berlusconi: promesse molte, fatti pochi, pasticci ogni giorno. Il nostro ministro non ha considerato che aveva l’occasione per chiudere una fase storica per l’Alto Adige e aprirne un’altra nell’interesse di tutti, senza dimenticare la tutela della popolazione di lingua italiana.
A sua volta, la politica italiana in Alto Adige, il Pd al governo o il Pdl all’opposizione, non è riuscita a imprimere alla discussione un salto di qualità: ottenere che la questione fosse il frutto di un confronto reale, alto, in nome di un nuovo futuro. Già la delega del negoziato all’Avs e al Cai è stata una scelta debole, quasi si volesse sollevare la politica dal compito increscioso di mettere le mani in un conflitto identitario incandescente. Solo in un secondo momento, il vicepresidente Tommasini è riuscito a guadagnare una maggiore centralità nella vicenda, evitando forse che Durnwalder rispondesse con i fucili ai cannoni (iniziali) di Fitto, e si è mosso per tutelare il negoziato. Nel complesso, il quadro politico italiano è sembrato scavalcato dagli eventi e non ha avuto la prontezza di cogliere l’occasione per fare davvero la storia.

***
Tuttavia, la debolezza più seria è proprio quella di chi, in teoria, avrebbe incassato di più dallo squilibrio dell’accordo: la Svp. L’infelice battuta di Durnwalder sulla Vetta d’Italia che dovrebbe sparire, non è stata una prova di forza.
E’ stata una dichiarazione d’instabilità. Il maggiore partito del territorio, quello con la maggiore responsabilità di governo, che rappresenta la maggioranza della popolazione tedesca, e che dovrebbe essere in grado di assumere come proprio l’interesse generale, è diventato il partito della rivincita sul lago Rodella. Invece di assumersi la paternità e la responsabilità di aprire la strada a un tempo nuovo per l’intero Alto Adige, come terra della convivenza e del dialogo che si proponga come modello all’Europa, invece di impugnare questo simbolo, ha scelto di essere l’interprete del tempo vecchio, degli istinti di rivalsa. Mai come in questi giorni, Durnwalder non si è comportato come il presidente di tutti, ma ha agito come il presidente di una parte maggioritaria contro un’altra minoritaria.
La Svp si è condannata da sola a essere il partito che si fa dettare la linea dalle dichiarazioni della Klotz. Un partito senza strategia, ma con una paura che gli impedisce di gestire con coraggio il cambiamento. Quando si accetta, come ha fatto l’Svp, di parlare e agire come partito identitario si deve sapere che c’è sempre qualcuno più identitario di te, più a destra di te, più di pancia di te. E l’autodifesa improvvisata di Durnwalder ha finito per dare ragione alla Klotz, perché ha spostato il gioco proprio sul suo terreno, aprendo dei varchi anche alla sua destra interna.

***
La Svp mostra, così, il volto della crisi che si annida dietro una forza vulnerabile: una crisi prepolitica, in quanto nasce dall’incapacità del partito, e di parte del Tirolo di lingua tedesca, di leggere e interpretare la storia, di rispondere alla modernità globale che avanza, e che cambierà queste valli, come avverte il prof. Fazzi. Svp e politica italiana sono arretrate di fronte al progetto di un Alto Adige plurale, plurilingue, che vive e costruisce insieme il proprio futuro, senza accettare con coerenza la responsabilità di indicarlo alla società come progetto.
Questo è il compito della leadership: indicare la direzione. Anche se c’è un prezzo elettorale da pagare in qualche valle o in qualche quartiere italiano. Del resto, la Svp rischia di pagarlo ugualmente un prezzo: l’accusa di avere svenduto l’identità etnica, buona a tutte le latitudini, troverà ascoltatori. Ma verrà pagato per una furbizia non per un disegno. Dunque, è mancata l’ambizione di pensare alla storia e alle generazioni future.
E’ venuto meno l’orgoglio di dare un significato alle cose. Quando si scende sul terreno dell’autenticità si scende su un terreno pericoloso: non bastano le tattiche politiche se non si mostra di credere in un’idea, e di impegnare le proprie energie per realizzarla.
Paradossalmente, Fitto e Durnwalder hanno sbagliato insieme: prigionieri dei loro tatticismi, hanno rinunciato a credere in un ideale politico e morale. E a conquistarsi, per questo, la stima dei cittadini. Ma, come ci ricorda il prof. Fazzi, la storia siamo noi. Per quanto incompleto sia l’accordino sui toponimi, è diventato lo specchio nel quale ora vedremo di cosa siamo capaci. Spetta alla società premere perché la politica, tedesca e italiana, si dimostri all’altezza dei suoi doveri. Spetta ai cittadini rammentare alla classe dirigente che l’Alto Adige, italiano e tedesco, coltiva una speranza. E non vuole farla cadere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA













Altre notizie

l’editoriale

L’Alto Adige di oggi e di domani

Il nuovo direttore del quotidiano "Alto Adige" saluta i lettori con questo intervento, oggi pubblicato in prima pagina (foto DLife)


di Mirco Marchiodi

Attualità