Nuovo Monumento Processione senza fine

Ieri 659 visitatori al centro di documentazione. Spagnolli entusiasta Soragni: non abbiamo censurato nulla, dobbiamo fare i conti con gli errori


di Francesca Gonzato


BOLZANO. Tutti al Monumento. Dopo il boom della inaugurazione da 3500 persone, ieri è ripreso un flusso continuo di persone che hanno visitato il centro di documentazione nelle sale interrate e hanno salito la scalinata per visitare l’arco di Piacentini, recintato dal 1978. I visitatori sono stati 659 nella cripta e 392 all’esterno. «Quando sono arrivato erano già 500», racconta il sindaco Luigi Spagnolli, che ieri pomeriggio è tornato «sul luogo del delitto. Mi sono letto il libro degli ospiti con i commenti entusiasti e le critiche, che gireremo alla commissione di storici». La classifica delle critiche è dominata dall’anello luminoso sulla faccia principale (Urzì annuncia un esposto) e dalla scelta dell’inglese come prima lingua dei tabelloni espositivi, seguito da italiano e tedesco. Questa la fotografia del giorno di Spagnolli: «La cosa sorprendente è la naturalezza del via vai di visitatori. Come se fosse normale essere lì, a visitare un museo al Monumento della Vittoria». Forse, sindaco, la lezione è che bisogna fare le cose, superando la paure. «Ma bisogna farle in modo che reggano, altrimenti casca tutto». Ragazzi, coppie di anziani che scrutano le foto della Bolzano degli anni Quaranta, molti turisti germanici, bolzanini di lingua italiana e tedesca seduti sulla scalinata a guardare i marmi. Questo il pubblico che ieri ha visitato «Bz ’18-’45: un monumento, una città, due dittature». Lo raccontiamo a Ugo Soragni e risponde con entusiasmo: «È la soddisfazione più grande di queste ore, era l’obiettivo che ci eravamo prefissi. Trasformare in un luogo di passeggio, oltre che di riflessione naturalmente, un sito militarizzato e vigilato. Me l’ha detto anche il ministro Franceschini alla inaugurazione: “Sarei felice se il monumento diventasse il luogo in cui passeggiare e sedersi”». Soragni, direttore della direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto, è uno dei componenti della commissione di storici che ha elaborato il progetto scientifico del centro di documentazione. È anche l’autore di un importante saggio sul monumento di Piacentini. Liberato dalla consegna del silenzio, Soragni racconta.

L’anello rotante luminoso provoca discussioni animate. Ci avete provocato?

«Bisognava trovare il modo per segnalare la presenza di un fatto nuovo, senza oltraggiare l’opera. Gli anelli riprendono il motivo della fasciatura dei fasci littori, cioè l’elemento simbolico più imbarazzante».

Quale è stato il filo rosso che vi ha guidato nella costruzione del museo incaricato di depotenziare il monumento?

«Quando si è trattato di definire i contenuti, ci siamo resi conto che non avremmo potuto limitare il discorso solo al monumento, ma sarebbe stato necessario allargare il campo per consentire una interpretazione migliore dei significati veicolati dal monumento. Se questa necessità è insita in ogni percorso di rivisitazione critica, per il monumento è ancora più vero, perché ci siamo accorti della complessa stratificazione di significati e scopi. Alcuni evidenti, altri meno».

Qualche esempio?

«Il valore urbanistico del monumento, che avevo approfondito nel 1993 nel mio libro. Il monumento era stato concepito come un oggetto dai forti contenuti simbolici ma immaginato da Piacentini come porta di ingresso della nuova Bolzano. Nei documenti dell’epoca emerge la perplessità per quella sorta di arco di Trionfo costruito in mezzo alla campagna. Ma Piacentini aveva il suo disegno, firmare il piano urbanistico di Bolzano, incarico che otterrà solo nella prima metà degli anni Trenta, mentre il monumento venne inaugurato nel 1928. C’erano poi le polemiche con Tolomei, che insisteva con Mussolini perché trasferisse la statua di Walther von der Vogelweide lontano dal centro e lamentava che, mentre il Walther restava in città, l’arco di Piacentini sorgesse tra i campi. Insomma, le polemiche lo hanno accompagnato dall’inizio... La difficoltà tra noi storici non è stata sui temi, perché quelli sono stati condivisi da subito. Il problema è stato come svilupparli, senza produrre un volume di storia».

Risultato?

«Abbiamo offerto alcune idee al visitatore, per riflettere e decidere se approfondire. Siamo stati tutti d’accordo da subito su un principio: non censurare nulla».

La politica quanto ha influenzato le decisioni?

«Non ci ha chiesto nulla, perché anche questo è stato messo in chiaro dall’accordo di programma del gennaio 2012 firmato da Stato, Provincia e Comune. Il nostro gruppo di lavoro aveva come interfaccia un comitato di vigilanza sull’accordo composto da tre tecnici, la dottoressa Francescutti della mia direzione, i dottori Cescutti e Travaglia per Provincia e Comune. Non ci siamo sottratti a un controllo, ma avevamo bisogno di lavorare senza una interferenza diretta della politica. Hanno compreso, vanno ringraziati».

Cosa dice oggi il Monumento, dopo il vostro lavoro?

«Resta un oggetto carico di significati, accompagnati però da una spiegazione. Un altro esempio: molti pensano che si tratti di un monumenti ai caduti della Prima guerra mondiale. Non è vero: il Monumento esalta la conquista italiana dell’Alto Adige, celebra i tre martiri dell’irredentismo Cesare Battisti, Damiano Chiesa e Fabio Filzi ed è carico di una simbologia mitologica e cristiana. È una simbologia anche un po’ confusa, perché Piacentini vi ha lavorato fino all’ultimo, inviando agli scultori numerose richieste di variazione. È un oggetto meno compatto di quanto non appaia».

Il museo può diventare un punto di riferimento in Italia di come è possibile fare i conti con la storia?

«Assolutamente sì. In Italia abbiamo riflettuto troppo poco sugli orrori che abbiamo commesso nel periodo coloniale e nella seconda guerra mondiale. Questa iniziativa può aiutarci a ricordare le cose buone realizzate, nel percorso raccontiamo opere pubbliche e industrializzazione a Bolzano, e le cose meno nobili, come la italianizzazione forzata. Liquidare in fretta le cose non serve a nulla».

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