Ormai tutti pensano per sé

di Paolo Campostrini


Paolo Campostrini


La Svp ha deciso: si occuperà solo dei tedeschi. Anche Durnwalder ha deciso: non sarà più il presidente di tutti. Un partito e una giunta hanno scelto di non candidarsi più a governare un territorio unitario ma di gestire la separazione. A pensarci, il problema non è che Durnwalder non festeggi l’anniversario dell’unità d’Italia ma che non abbia mai voluto festeggiare neppure quello dell’autonomia. Ne avrebbe la possibilità. E gli avevano pure offerto alcune date: l’accordo di Parigi, il patto De Gasperi-Gruber, la firma del Pacchetto, la quietanza liberatoria. Tappe fondative di una nostra magna charta della convivenza. Facendo crescere il sospetto che tanta Svp non accetti la prima festa perchè non considera la seconda un’occasione per festeggiare. Sembra preda di un retropensiero: che anche l’autonomia resti solo una tappa di avvicinamento all’autogoverno, un passaggio intermedio verso le magnifiche sorti e progressive di una minoranza che fa una tremenda fatica a vedersi nella rete dei popoli europei e ritiene la propria sorte l’ombelico continentale. Si tratta di una visione identitaria più che politica. Di più: prepolitica.
Di conseguenza non in grado di leggere politicamente passaggi come questo dei 150 anni. Durnwalder potrebbe vedere l’Italia di oggi come un Paese che ha elaborato un patto autonomistico senza uguali nel mondo e dunque onorandolo, onorala. Non vede per la semplice ragione che questo patto per lui ha una valenza inferiore ai 200 anni di Hofer. Perchè è preda del mito e non della storia. Perchè guarda indietro e il suo universo di riferimento è rimasto ibernato al 4 novembre 1918 e a quella vigilia vorrebbe tornare. Non vuole celebrare perchè non riesce a scindere l’Italia di Mussolini e Tolomei da quella di Moro; la patria dello Statuto Albertino da quella dello Statuto di autonomia; il Paese centralista scelbiano da quello che ha prodotto da Costituzione repubblicana e la tutela in profondità delle minoranze.
Con una serie di conseguenze che dal mito ci fanno piombare nella realtà. 1) La prima è che così facendo, Durnwalder certifica la divisione della nostra società. E lo fa con precisione scientifica: qui qui gli italiani, di là i tedeschi. 2) Ribadisce la scomparsa di un luogo unitario (la giunta, la presidenza della Provincia) capace di tenere sotto il suo ombrello le diverse sensibilità. Di coprirle e valorizzarle, senza necessariamente condividerle. Come avviene nelle democrazie mature e dovrebbe accadere in una autonomia consolidata. 3) Straccia la sostanza e in gran parte la forma del dettato statutario. Perchè il Pacchetto non è solo una legge di rango costituzionale. E’ di più: un patto tra due popolazioni. Che accettano la democrazia (e dunque le regole della maggioranza) solo alla condizione che essa protegga la minoranza nazionale rispetto allo Stato centrale e che, a specchio, difenda la minoranza nazionale italiana dentro i confini provinciali dalla forza dei numeri dei sudtirolesi divenuti maggioranza territoriale. Un patto che le istituzioni autonomistiche sono tenute a incarnare proprio nel momento in cui sono in grado di non agire solo in rappresentanza etnica ma, appunto, territoriale. La giunta dovrebbe essere la nostra giunta, non la loro. Non è stato così: Durnwalder non si è mosso da presidente ma da primo rappresentante del gruppo etnico tedesco e leader Svp. E, quel che è più grave, la Svp ha deciso di restare un partito etnico. Di non più assumersi la responsabilità di incarnare la complessità ma di gestire l’ordinario.
Gli italiani prendono atto. Non hanno i numeri per scalfire un potere ormai etnicizzato ma possono inziare ad attrezzarsi per affrontarlo. Per difendere, più che l’identità di un singolo gruppo, la possibilità che tutti i gruppi possano sentirsi a casa loro. E’ un compito che potrebbero condividere con la Svp. Se solo volesse.

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