«Profughi, accogliere è nostro dovere Non si fa mai troppo»

Josef Pahl fu il primo sindaco a gestire l’arrivo di migranti Nel 1991 Monguelfo ospitò 376 albanesi in caserma


di Francesca Gonzato


BOLZANO. Josef Pahl è stato il primo sindaco altoatesino che si è trovato a gestire l’accoglienza di migranti. E lo ha fatto in grande: 376 albanesi arrivati in treno da Brindisi a Monguelfo, comune di meno di duemila persone, ospitati alla caserma «Battisti». Venticinque anni dopo, Pahl dice: «Non vorrei che quella esperienza non fosse entrata nella mia vita». Senza abbellimenti: «Non è stato facile». Pahl è uno dei protagonisti della storia raccontata nella mostra fotografica «Quando approdarono gli albanesi», che ricorda il marzo del 1991. La mostra resterà aperta al Centro civico di piazza Nikoletti a Oltrisarco fino a oggi (ore 8.30-12.30). Abbiamo chiesto a Pahl (fratello dell’ex consigliere provinciale Franz) il suo racconto di quei giorni, che parlano anche di oggi.

Nel marzo del 1991 lei era un giovane sindaco Svp a Monguelfo.

«Avevo 42 anni, ero sindaco da soli due anni. Insegnavo inglese e francese a Brunico. Mi chiamarono dal Commissariato del governo, avvisandomi che il giorno dopo sarebbero arrivati oltre 300 albanesi. Come tutti, avevo visto le immagini di quelle navi piene all’inverosimile. Il regime albanese si stava sgretolando, la situazione era fuori controllo. Non sapevo a cosa saremmo andati incontro, ma non ebbi molto tempo per pensare. Informai subito la giunta e il consiglio comunale: furono spaesati. Ovvio, eravamo i primi in assoluto in Alto Adige».

E il giorno dopo arrivò il famoso treno dalla Puglia.

«Erano le 11. Il treno entrò in stazione. Le foto parlano da sole. Erano tanti, stanchi, smarriti, catapultati in un mondo che non conoscevano. La maggior parte erano uomini, poche le donne. Avevano con sé solo sacchetti con poche cose».

Cosa ha pensato?

«Non mi sono mai perso d’animo. Non ero solo ovviamente, c’erano i funzionari del Commissariato del governo, militari e forze dell’ordine. Dovevo agire, e ho agito secondo i miei doveri e la coscienza. Dissi subito che sentivo il dovere di dare un tetto ai profughi. Restai lì venti ore al giorno. Qualcuno di loro diventò nervoso, ci furono momenti di tensione: mi ritagliai un ruolo da pacificatore».

Come organizzaste le giornate?

«Iniziarono presto i corsi di italiano, grazie ad alcuni studenti universitari. Ma non c’erano grossi problemi di comunicazione. Molti di loro conoscevano almeno un po’ di italiano».

Parliamo dei suoi concittadini. Come hanno reagito?

«In stazione, all’arrivo del treno, c’erano una ventina di persone. Le facce erano spaesate, diciamo così... Li capivo. Ci fu forse qualche parola dura, nei giorni seguenti, ma considerato il grande numero di profughi innestati in una piccola comunità, direi che le cose andarono bene. Raccogliemmo vestiti e medicinali, il mio garage si riempì. No, il clima avrebbe potuto essere molto più duro. E gli albanesi si comportarono bene. Non ci fu un solo episodio spiacevole in città, un furto, nulla. E poi a volte la storia ti ripaga.

Cosa intende?

«L’areale della “Battisti” potrà diventare una zona di espansione interessante. La generosità dell’accoglienza in qualche modo viene ricompensata...».

In estate era tutto finito.

«Nel giro di quattro, cinque mesi se ne andarono tutti. Alcuni vennero portati in altri comuni del nord Italia, altri a Malles e Bolzano. I loro figli studiano nelle nostro scuole o all’università. Ci sono stati matrimoni, anche “misti”. Molti di loro hanno aperto delle imprese. Quando vengo a Bolzano, incontro tanti furgoncini con nomi che riconosco. No, non vorrei che nella mia vita fosse mancata questa esperienza».

Pagò un prezzo politico?

«Alle elezioni successive venni ricandidato, ma la vicenda non mi ha aiutato. D’altronde un politico non può scegliersi le situazioni. Si fa ciò che va fatto. E io ero un sindaco della Svp, un partito cristiano, che pone la solidarietà tra i suoi primi valori. Non ho avuto un solo dubbio».

Lei invita i sindaci, che oggi devono organizzare l’accoglienza ai richiedenti asilo, a non mettere in primo piano le difficoltà.

«Ci stiamo confrontando con numeri piccoli. I Comuni altoatesini possono ospitare alcune famiglie, con numeri proporzionali alle dimensioni. Italia, Germania e Austria stanno facendo molto, ma nessuno può dire di avere fatto troppo. Siamo stati noi stessi emigranti: quanti sudtirolesi hanno cercato lavoro in Germania negli anni Sessanta? E quante responsabilità ha l’Occidente per il suo passato coloniale?».

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