Razzismo: Menapace zittisce Salvini

L’ex senatrice bolzanina, in invitata da Floris alla trasmissione su La7, ha messo in difficoltà il segretario della Lega


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «La storia dei miei gatti insegna che forse è meglio non essere di razza “pura”». Invitata da Giovanni Floris alla trasmissione “Di martedì” in onda su La7, per presentare il suo libro «Io, partigiana», l’ex senatrice bolzanina di Rifondazione comunista Lidia Menapace, 90 anni carichi di grinta, in tailleur bluette con collana in tinta, ha messo in difficoltà in diverse occasioni il segretario della Lega Matteo Salvini sul tema dell’immigrazione. Si sono scontrate due visioni diametralmente opposte del fenomeno che per Salvini bisogna assolutamente bloccare, mentre per l’esponente della sinistra si può solo cercare di gestire. Ieri Menapace, rientrando in treno dalla capitale, ha ricevuto una serie di messaggi: «Mi hanno detto che sono riuscita a tener testa bene a Salvini». Poi ridendo: «Qualcuno, addirittura, mi ha detto che sono bella: non mi era mai capitato. Comunque, va bene così, visto che oggi l’estetica è diventata un elemento importante anche a sinistra».

L’ignoranza. Complimenti a parte, com’è andata? «Ho cercato di spiegare a Salvini che l’ignoranza, in particolare in un settore delicato come questo, non è ammessa, perché in quelli che sono su un divano davanti alla Tv rischia di generare razzismo. Il segretario leghista non può non conoscere i precedenti storici. Ovvero, non può non sapere che i popoli, il nostro compreso, si è formato attraverso due fenomeni: invasioni ed immigrazioni. Inoltre, se c’è un Paese che più di altri dovrebbe essere sensibile al dramma di chi sbarca sulle nostre coste, è l’Italia. Visto che ciascuno di noi ha un nonno, uno zio, un fratello che hanno dovuto emigrare, per costruirsi un futuro».

È vero, però le ondate di immigrati che sbarcano sulle coste italiane sono un problema: Salvini si fa portavoce di un disagio crescente tra la popolazione.

«Il leader leghista deve entrare nell’ordine di idee che l’immigrazione non la fermi, bisogna cercare di gestirla».

Scusi, e la storia dei gatti, di cui ha parlato in tv, cosa c’entra?

«Quando nel ’79 è caduto il regime dello scià di Persia, lavoravo a «Il Manifesto». Tutte le grandi testate nazionali e internazionali hanno mandato gli inviati. Noi abbiamo fatto una colletta per consentire ad un collega di andare a documentare quello che stava succedendo a Teheran. Quando è tornato ha raccontato che c’era chi si era portato via dal palazzo reale abbandonato dalla famiglia dello scià un vaso, chi un piatto o un quadro prezioso, lui aveva preso due gatti che facevano parte dell’allevamento della sorella di Reza Pahlavi. Risultato: negli anni successivi, nelle case di molti esponenti della sinistra italiana, ci sono stati gatti persiani nati dalla coppia. Il mio si chiamava Teheran: bellissimo, regale nei movimenti, peccato fosse stupido. Poi ho avuto un soriano, frutto di chissà quali mescolanze e incroci: non era bello, ma era furbo. Tutto questo per dire che forse quello che vale per gli animali, vale anche per gli uomini, ovvero è meglio essere un po’ meno puri, ma più intelligenti. Le mescolanze di popoli, favorite dalle immigrazioni, oltre ad essere inevitabili, fanno bene alla razza».

L’ambulante marocchino. Parlare in un salotto di immigrazione è semplice, confrontarsi in maniera concreta un po’ più complicato. «Lo so, ma si può fare. Io, nel mio piccolo, tempo fa ho conosciuto un venditore ambulante che era sempre sotto i Portici. Parlando ho scoperto che è di Fes in Marocco: mi ha raccontato che loro l’acqua l’avevano, non avevano invece il pozzo. Mi sono attivata, abbiamo raccolto fondi: loro ci hanno messo il lavoro, noi i soldi. A primavera andrò lì ad inaugurare un centro culturale. Dobbiamo aiutarli a restare nei loro Paesi. Lo fanno anche i missionari, solo che come contropartita chiedono a questa gente di convertirsi».

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