Teatro Stabile, 60 anni di vita insieme

di Paolo Campostrini


Paolo Campostrini


E’ lo Stabile che ci ha fatto entrare in società. Sessant’anni fa eravamo laceri (per una guerra persa) e frastornati (per una pace incerta): italiani aggrappati con le unghie ad una Italia umiliata e fragile. Una comunità piena di bisogni urgenti: pane, lavoro, la vita da mettere insieme dentro una provincia diffidente e ombrosa. Il meno urgente poteva essere un teatro. Invece è nato lo Stabile. Potevamo chiuderci, invece sono arrivati Fantasio Piccoli che guidava un carro di attori come Romolo Valli, Aldo Trionfo, Adriana Asti. Potevamo stancarci presto di questi inquieti compagni di viaggio. Invece li abbiamo difesi con ostinata caparbietà. Potevamo decidere di spendere i soldi facendo solo case e strade. Invece è stato costruito un teatro. Oggi si direbbe: abbiamo investito in cultura.
Ieri no, ieri era un azzardo. Ieri c’era un confine e la paura di non uscirne. Invece, sessant’anni dopo, è certo che proprio azzardi come lo Stabile ci hanno consentito di essere migliori. Lo Stabile ha aperto una strada. E anche qualche mente. Attraverso lo Stabile è stato possibile allevare alcune generazioni di italiani nuovi, capaci di approfondire la propria identità senza togliersi la curiosità di indagare quella altrui, di essere italiani ma di voler conoscere i tedeschi: è stato lo Stabile a farci amare Thomas Bernhard. Portato sulle scene quando ci voleva coraggio a portarlo. Ma, d’altronde, se non qui dove?
Questo e altro ha fatto lo Stabile. Nato quasi con noi, quando gli altoatesini ripartivano nella democrazia, ha dato il meglio di noi. Ci sono due parole tedesche che possono dare il senso di un risultato. La prima è Gemeinschaft, comunità; l’altra è Gesellschaft, società. La comunità è un bene, ci fa sentire in famiglia, simili tra simili. La società è meno univoca, più composita. Ma dove c’è la paura del vicino, come in Alto Adige, spesso la comunità crea più che famiglie, tribù. In cui la difesa dell’identità va a scapito della conoscenza e del progresso, in cui la tolleranza è un lusso che molti non si possono permettere. Ecco, lo Stabile, ha fatto crescere, accanto al senso di comunità, anche quello di società. Due gruppi diversi e ostili hanno trovato nella cultura, in quella cultura, possibilità di un raccordo. E quello italiano un’occasione per avere meno paura, uscire dal guscio e sprovincializzarsi. Lo Stabile è un’anomalia. E’ cresciuto dove era oggettivamente difficile che si sviluppasse una istituzione di questo livello, lontana dai centri del potere e del denaro. Quando di soldi, anche qui, ce ne erano pochi e l’autonomia era solo un orizzonte possibile. Va detto che il merito è soprattutto della gente che ha continuato ad andare a teatro ma lo Stabile è anche il frutto di una felice anomalia sinergica. Poche volte lo Stato e le amministrazioni locali hanno saputo collaborare così. Lo hanno fatto senza troppe pigrizie. Il risultato è quello che vediamo. Sessant’anni dopo, giusto il Malato immaginario di Molière ci fa comprendere che anche dal morbo di confine si può guarire.

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