Toniatti: «Convenzione a senso unico»

Il giurista presenta la sua relazione di minoranza: «Radici cristiane e autodeterminazione: non c’è stata ricerca di condivisione»


di Paolo Campostrini


BOLZANO. «No, non posso che dissentire - dice Roberto Toniatti - perché radici cristiane, insistenza quasi infantile sul richiamo al l’autodeterminazione e soprattutto elaborazione di un documento finale al di fuori del principio del consenso esplicitamente richiamato nelle norme istitutive della convenzione, mi impongono di scrivere una nota di minoranza. Ma...». Ma che cosa, professore? «Non sono d’accordo neppure con chi, come l’amico Dello Sbarba e altri, dicono e scrivono che questa esperienza sia stata un fallimento. Penso molto sinceramente che non lo sia stato. Perché? Per la ragione che ci ha mostrato un’anima sudtirolese molto predisposta all’autodeterminazione. E questo è stato uno spunto estremamente realistico, non equivocabile. Ma anche disponibile, quest’anima, a elaborare un concetto di autonomia integrale. Una Vollautonomie che potrebbe diventare trainante per un futuro dibattito sul tema pure in Trentino...». Roberto Toniatti, giurista, docente all’Università di Trento si prepara a presentarla oggi la sua relazione di minoranza. Accanto a quelle degli altri "dissidenti", tutti italiani, come Roberto Bizzo, Maurizio Vezzali, Dello Sbarba-Polonioli. Lo faranno nel mentre verrà aperta l’ultima seduta della convenzione dei 33, al termine della quale sarà consegnata la versione definitiva della relazione finale, quella scritta a colpi di maggioranza. Da cui il consiglio provinciale partirà, a settembre, per muoversi politicamente sul tracciato emerso nella discussione di questi mesi. Ma, essendo sia Forum che convenzione, organismi consultivi, userà quelli che "politicamente" riterrà opportuno.

Perché dissente professor Toniatti?

«Il richiamo alle radici cristiane mi è parso inopportuno».

Abbiamo una storia più complessa?

«Non solo. Le mie considerazioni non positive sulla frase inserita nel preambolo non derivano solo da una diversa visione del passato ma anche da una preoccupazione sul futuro. Mi spiego. Su temi come la ricerca, la salute, la famiglia, una premessa di questo tipo potrebbe creare degli intoppi, delle forzature».

E poi l’autodeterminazione...

«Ci sono due ordini di problemi. Il primo è che in questo modo si fuoriesce dal contesto delle garanzie internazionali. L’autonomia le possiede, l’autodeterminazione no. La prima riguarda una minoranza nazionale, la seconda l’autodefinizione di un popolo. E gli italiani? Il secondo problema è psicologico e ambientale. Il richiamo mi è parso frutto di un’ossessione un poco infantile che rischia di essere visto come provocatorio dagli altoatesini di lingua italiana. O dallo Stato. E dunque non funzionale anche rispetto agli obiettivi che si prefigge. Senza considerare che, in questo modo, si taglia fuori il Trentino da qualsiasi possibile intesa. È questo non va».

Poi lei nella sua relazione insiste molto sulla mancanza di consenso...

«È un punto decisivo. Nelle norme istitutive si parla esplicitamente di schema consensuale da porre in essere nelle relazioni. Dico di più: se la maggioranza vuole certe cose e altri no, dovrebbe essere la maggioranza a scrivere una relazione di minoranza...».

Sembra una provocazione dialettica.

«Non lo è. Se la maggioranza si pone fuori da questo quadro normativo, dal "disciplinare" della convenzione, lo faccia da minoranza che vuole forzare la cornice di riferimento dell’organo stesso».

Molti tra gli italiani e non solo dicono che la convenzione è stata un fallimento.

«Qui dissento».

Prego.

«Abbiamo avuto la possibilità di verificare quello che si muove dentro una certa anima sudtirolese. Una spinta precisa verso una diversa visione dei rapporti».

Ma l’autonomia che fine farà allora?

«Ecco, qui mi spingo un poco in avanti. E dico che dovremo approfittare di quanto emerso, anche infantilmente, provocatoriamente, nella convenzione per iniziare a confrontarci con l’idea di una autonomia più avanzata».

Quella che la Svp chiama Vollautonomie .

«Non sono un politico. E sono un trentino. Per cui dico, politologicamente, che questo possibile dibattito potrebbe essere trainante anche per il Trentino stesso. Dove vuole arrivare, con chi? Con quali possibili rivendicazioni?».

Fin dai tempi della Dc, molti altoatesini erano appunto preoccupati dal fatto che il Trentino si muovesse senza consultarli...

«Ne sono cosciente. E infatti ho premesso di essere un trentino. So che l’idea di una autonomia più spinta sconcerti gli italiani di Bolzano. Ma penso che ci siano vari modi di sentirsi italiani. C’è quello degli abitanti del Canton Ticino, quello della minoranza in Slovenia, poi c’è l’italiano toscano o quello emiliano. E poi quello altoatesino».

Che si sente minoranza...

«Ma che non può neppure vivere come se fosse in Toscana. Nel senso che una maggiore condivisione rispetto ai temi di una autonomia più incisiva potrebbero riportare gli italiani al centro della società...».

Alcuni si sentono invece più ai margini, no?

«Amici di Bolzano mi dicono di essere stanchi di fare sempre e solo i secondi, i vice...».

Appunto...

«Ma magari perché non stanno al centro della scena, non spingono verso una visione più autonoma del loro essere italiani in Alto Adige. E in ogni caso, la via sbagliata per farli sentire a casa, è quello di spingersi oltre da parte tedesca».

Verso l’autodeterminazione?

«Esatto. Mi sembra infantile . E non funzionale. Come avere ora una visione troppo langeriana del mondo sudtirolese. Per me non è ancora il tempo. Anche se sono convinto che i tedeschi ci arriveranno. E dall’altra gli italiani arriveranno ad un maggiore patriottismo autonomistico. Ma insisto: come per i 33 il vero errore è’ muoversi al di fuori del consenso . Senza consenso si va avanti a strappi».

E magari si va indietro.

«Appunto».













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