L'intervista

«Tutta una vita in uniforme sulle tracce dei serial killer» 

Sessant’anni il 21 dicembre, il dirigente di polizia Stefano Mamani lascerà il servizio a fine anno. Cresciuto in una base militare americana, è stato militare dell’Arma. Dal 1990 è alla questura di Bolzano dove ha seguito i casi più importanti


Paolo Tagliente


BOLZANO. Il 21 dicembre spegnerà 60 candeline e dieci giorni più tardi, il 31, appenderà al chiodo la divisa della Polizia di Stato. Stefano Mamani, primo dirigente attualmente a capo della Divisione Anticrimine della questura, lascerà il servizio per raggiunti limiti d’età. Dopo una vita intera tra le divise. Proprio così, “divise” al plurale. Forlivese di nascita, madre romagnola e padre texano, un ufficiale dei Marines morto in Vietnam quando lui aveva solo 8 anni, Mamani, nelle cui vene scorre anche sangue comanche, è cresciuto negli States in una base militare, ha prestato servizio per tre anni nell’Arma dei carabinieri, per due è stato impiegato civile nell’ufficio dello sceriffo nella Contea di Lane, in Oregon, e poi è entrato in Polizia.

In tutto questo, pur continuando a dividersi tra Italia e Stati Uniti, ha anche conseguito una laurea a Bologna. Alla questura di Bolzano è arrivato nel 1990, per un qui pro quo. «Quando ho redatto il curriculum – spiega, ridendo – ho scritto che ero madrelingua inglese, ma la parola “inglese” era su un altra pagina e così, dando per scontato che invece fossi di madre lingua tedesca, mi hanno mandato qui». Di questi 31 anni, ne ha passati sei al comando della Squadra Volante, 14 come dirigente della Squadra mobile, cinque come Capo di gabinetto e dal 2015 dirige l’anticrimine.

Un romagnolo a Bolzano, come sono stati questi 31 anni?

Belli e intensi. Qui, e più in generale in Alto Adige, mi sono fin da subito trovato bene e ormai questa è casa mia. Credo mi abbia agevolato la cultura anglosassone in cui sono cresciuto e che è certo più vicina a quella sassone che si respira in Alto Adige rispetto a quella latina del resto d’Italia. Qui ho trovato una popolazione aperta e disponibile, anche nelle vallate. Persone schiette con cui è possibile instaurare legami di amicizia basati sul reciproco rispetto. Un rispetto che spesso ho avvertito anche da parte di persone che, nel corso degli anni, ho arrestato: hanno capito che stavo facendo il mio lavoro e hanno apprezzato la mia correttezza. Nel frattempo, ho imparato il tedesco e ora, anche grazie alle molte amicizie, parlo soprattutto il dialetto altoatesino.

In questi anni si è occupato di molti casi, che spesso hanno avuto anche eco nazionale. Quali sono quelli che più ricorda?

Beh, quando ero alla Squadra Volante, con il dottor Alexander Zelger alla guida della Squadra Mobile, mi sono occupato delle terribili vicende di tre serial killer come Marco Bergamo, Ernst Schrott e Ferdinand Gamper. Anche nei 14 anni passati a dirigere la Squadra Mobile, molte sono state le indagini che abbiamo condotto su una miriade di vicende, ma ricordo particolarmente quella di un altro serial killer: Frank Thäder, il camionista tedesco responsabile dell’omicidio di alcune donne, quasi tutte prostitute. Per l’assassinio della diciannovenne austriaca Carmen Wieser, uccisa a San Candido e il cui corpo venne poi ritrovato a San Stino di Livenza, era finito in carcere Florian Sulzenbacher. Tutti gli elementi portavano a lui, ma le indagini, coordinate dai pm Guido Rispoli e Giancarlo Bramante, furono lunghe e approfondite e, alla fine, la confessione di Thäder scagionò definitivamente Sulzenbacher. Nel 1998, invece, in collaborazione con il Secret Service statunitense, smantellammo un’organizzazione che, in tutta Europa, aveva immesso un fiume di banconote false. Molti furono gli arresti. Ricordo anche l’indagine che fece saltare il racket delle badanti moldave, che venivano letteralmente schiavizzate. Abbiamo lavorato costantemente su vari fronti con la polizia tedesca e austriaca, inoltre, apprezzando sempre la grande organizzazione dei colleghi d’Oltralpe. Da capo di gabinetto, invece, ho presenziato a moltissime marce degli Schützen, credo di averne fatte più degli Schützen stessi (ride), sono stato 15 volte in Val Susa, per i presidi No Tav, e una al Brennero, quando ci furono gli scontri con gli anarchici. Mi sono occupato anche dell’Adunata degli alpini, che si è svolta a Bolzano nel maggio 2012. Si tratta di un evento enorme e, all’inizio, per quanto riguardava la sicurezza, c’era parecchia preoccupazione. Ricordo che una mattina, di buon’ora, ero in città per compiere l’ennesima verifica lungo il tracciato su cui si sarebbe snodata la sfilata degli alpini. Dall’altra parte della strada vidi Luis Durnwalder, allora presidente della Provincia, che stava facendo la stessa cosa. Quando mi vide, disse “Venga, dottor Mamani, controlliamo il tracciato insieme”».

Un’indagine che non si è conclusa come avrebbe sperato c’è?

Quello di Lucia Cainelli, la dottoressa che nel febbraio 2001, a Merano, fu aggredita da uno sconosciuto che le gettò addosso dell’acido. Il responsabile non fu mai trovato, ma non nascondo che un sospettato ci fosse.

E dal 1 gennaio, il cittadino Stefano Mamani cosa farà?

Devo dire che non sono felice di lasciare la Polizia, perché amo il mio lavoro e l’ho sempre svolto con passione. Comunque, non ho alcuna intenzione di starmene sul divano a guardare la televisione e troverò senza dubbio qualcosa per occupare il mio tempo. E poi viaggerò. Il primo viaggio sarà in Kurdistan: qui a Bolzano ho amici curdi, persone squisite che mi hanno invitato a visitare il loro paese.

La vita senza divisa di Mamani, insomma, si preannuncia intensa quanto e più della prima.













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