Uccise l’ex a coltellate, condannata a 18 anni 

La sentenza in Corte d’assise. La cinquantanovenne badante serba ritenuta colpevole della morte dell’ex marito che il 4 dicembre del 2016, a Rasun, fu ammazzato con 8 fendenti



Bolzano. Dzenana Mangafic è colpevole. La Corte d’assise di Bolzano, presieduta dal giudice Carlo Busato, ha ritenuto la badante di 59 anni di Sarajevo colpevole del delitto avvenuto il 4 dicembre 2016 a Rasun di Sotto, dove venne trovato morto il suo ex marito, Kurt Huber, e l’ha condannata, in primo grado, a 18 anni di reclusione per omicidio volontario. L'uomo, di 71 anni, malato e con una gamba amputata a causa del diabete, era stato ucciso con otto coltellate nel letto del piccolo alloggio sociale in cui viveva. A dare l’allarme fu la stessa Dzenana, assicurando però di averlo trovato già morto. Si è sempre dichiarata innocente, e anche ieri, in aula, con una dichiarazione spontanea a conclusione del processo, ha ribadito la propria innocenza. La donna, visibilmente provata, s’è rivolta ai giudici e ha detto: «Ho passato la vita a prendermi cura del signor Kurt, non l’ho ucciso io. Credo nella polizia e credo in voi. Non l'ho ucciso io». Gli inquirenti non le hanno mai creduto, visto che venne subito indiziata del delitto: nel corso dell’indagine che seguì, però, non è mai stata trovata l’arma del delitto né un chiaro movente. E anche l’individuazione dell’ora del delitto è stata molto controversa. Anche ieri, l’avvocato Angelo Polo e il collega Andreas Tscholl, difensori di Mangafic, hanno più volte sottolineato i vuoti e i presunti errori, anche grossolani, emersi dall’inchiesta. Una lunga serie di incongruenze, la mancanza di un movente e la presenza in paese di un misterioso uomo vestito di nero che, secondo la donna, avrebbe lasciato l’appartamento occupato da Huber e Mangafic proprio nel pomeriggio del 4 dicembre. Uomo che, però, nessun testimone avrebbe mai visto. Questi i pilastri su cui poggiava la difesa che ha anche contestato l’attendibilità di alcuni accertamenti tecnici: l’ora della morte sulla base dell’umor vitreo e del potassio, i mancati rilievi scientifici sulle macchie di sangue, la mancata tutela della scena del crimine a fini scientifici, gli errori in fase di autopsia. Non solo, Tscholl e Polo hanno sottolineato nuovamente con forza due particolari importanti: sui vestiti dell’imputata non è mai stata trovata alcuna traccia ematica e nell’appartamento nessuno ha usato doccia o lavandino per lavarsi. I giudici popolari, insieme al presidente Carlo Busato e il giudice a latere Stefan Tappeiner, si sono riuniti in camera di consiglio poco prima delle 13 e sono usciti quasi cinque ore più tardi, poco dopo le 17.30 con la sentenza. L’accusa sostenuta dal pm Igor Secco, secondo il quale non ci potevano essere delle ipotesi alternative a quella che vedeva Dzenana come autrice del delitto. Lunedì, il pm aveva chiesto una condanna a 21 anni, considerando le attenuanti equivalenti alla recidiva di una precedente condanna per fatti minori e alla minorata difesa, mentre la corte ha valutato le attenuanti prevalenti rispetto alle aggravanti, non considerando la premeditazione, i futili motivi e la crudeltà, che avrebbero portato all’ergastolo. Il calcolo della pena ha portato così ad una condanna meno pesante, a 18 anni. Le motivazioni della sentenza sono attese entro 90 giorni e, solo allora, i due difensori, che anche ieri si sono battuti con passione, decideranno come muoversi. «Quando per mesi si vive un processo così, raggiungendo un’intima convinzione di cui si va a rappresentare alla corte è normale che ci sia dell’amarezza – commenta l’avvocato Polo – ma solo dopo le motivazioni capiremo qual è il mezzo di impugnazione più idoneo. Impugnazione che direi scontata».













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