Un mese in Etiopia per aiutare le donne a far nascere i bebè 

Linda Bettini al ritorno dalla missione “Getche”: «Le pazienti arrivavano senza sapere quale fosse lo stato di gravidanza» 


di Roberta Catania e Amal jamil*


BOLZANO. «Il lento scorrere del tempo e la forza delle donne», ecco quali sono i “souvenir” che si è portata a casa Linda Bettini, giovane ostetrica altoatesina, appena tornata al lavoro nella sua sala parto di Merano dopo un mese trascorso in Etiopia, nella regione di Guraghe.

La Missione Getche, sostenuta da Mam Beyond borders, associazione ostetrica del parmense, dispone di tre ambulatori, una clinica ostetrica e una scuola, servizi che abbracciano un bacino di utenza di 12.000 persone collocate ad ampio raggio rispetto alla missione, cuore di una vasta zona rurale, stazione principale di un'unica strada asfaltata. È stato un mese intenso quello di Linda, che si è dovuta confrontare con scarse attrezzature, con metodologie e approcci ostetrici differenti e con la cultura africana, orientata sul qui ed ora. «Nella lingua amarica non esiste il tempo verbale futuro: il concetto di risparmio, di provvista o di uso parsimonioso del materiale o dei viveri non è parte della loro concezione di vita, così come la strutturazione del lavoro o della documentazione finalizzate ad avere sotto controllo le situazioni delle pazienti anche per essere pronti in eventuali casi di emergenza. Dopo i primi giorni ho capito che non ero lì per stravolgere il loro modo di lavorare, ma per confrontarmi con questo loro mondo e perché loro si confrontassero con mio. È stato molto gratificante quando dopo qualche giorno anche le colleghe locali hanno iniziato a chiedermi consulti o pareri». Una delle cose principali vissute da Linda Bettini è stato lo scorrere lento del tempo, l'attesa: si attendeva a curare una paziente perché si aspettavano i medicinali; si attendeva a trasportare un bambino in ospedale perché non c'era a sufficienza gasolio; si attendeva che le donne arrivassero alla clinica con un lento tuk tuk e che partorissero senza cognizione di quello che fosse il loro stato di gravidanza. Il tempo e il calcolo del tempo lì non sono dati certi. Si attendeva, ma nell'attesa si dava il massimo. Come quando Linda ed altre colleghe etiopi hanno salvato la vita ad una bambina appena nata rianimandola con una pompetta ad ambo. Spirito di adattamento e costruzione di nuove certezze sono le cose che hanno fatto cambiare la prospettiva degli interventi professionali a Linda, ostetrica dal 2010. La cultura occidentale è tenuta molto in considerazione nel villaggio: i farenji, gli stranieri, nella missione intercettano sì la diffidenza della popolazione, ma al contempo godono anche un tacito rispetto. «Quando siamo arrivate lì, è venuta una donna cieca che sperava riuscissimo a risolvere il suo problema, quasi come a cercare un miracolo». La società di questa regione rurale è assolutamente matriarcale: in Guraghe le donne lavorano i campi, trasportano le merci e l'acqua, provvedono al fabbisogno economico e si occupano della famiglia. Una delle parole più importanti lì è infatti “isosh”, che indica il coraggio, un coraggio declinato tutto al femminile. L'ospedale più vicino alla missione in cui ha lavorato Linda è Attat ed è anche la sede del progetto della provincia di Bolzano e dei Medici dell'Alto Adige per il Terzo Mondo. Linda e le altre volontarie italiane erano seguite da Suor Francesca, missionaria ed infermiera di Getche, l'unica persona che rompeva le barriere linguistiche e mediava per quelle culturali tra le ostetriche e le pazienti. «Le immagini che mi ricorderò saranno relative agli abbracci post partum, ai volti emozionati e riconoscenti». Linda ha ripreso ora a lavorare a Merano, ricca di un'esperienza forte che le ha cambiato la vita professionale e che ha dato la vita a molti bambini e bambine etiopi.

*Redazione CoolTour













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