IL RACCONTO

Vittime del profondo senso del dovere



All’elibase di Pontives, quartier generale dell’Aiut Alpin Dolomites, si legge negli occhi dei soccorritori rabbia e frustrazione. C’è la consapevolezza di aver perso quattro amici, preparati e disposti a rischiare anche oltre il dovuto per tentare di salvare la vita ad escursionisti poco accorti, partiti senza tenere conto delle previsioni meteo. Il direttore tecnico Raffael Kostner, mentre stringe in mano i certificati di morte dei quattro fassani e dei due turisti friulani avventuratisi in val di Lasties con le ciaspole ai piedi, si sfoga e - con le lacrime agli occhi - sottolinea come sia difficile fare il soccorritore di professione. I “suoi“ ragazzi sono partiti pur sapendo di avere poche chance di trovare i due alpinisti dispersi ancora in vita. Lo hanno fatto per un senso del dovere assolutamente fuori del comune e per l’amore infinito per un lavoro che necessita di coraggio e nervi saldi. A tradirli - con ogni probabilità - è stato il buio, che non ha consentito loro di valutare tutti i rischi e di capire che da un momento all’altro si sarebbe potuta staccare una slavina con un fronte di alcune centinaia di metri.
 Per Raffael Kostner dopo la tragedia di ieri, la più grande verificatasi nelle Dolomiti negli ultimi vent’anni, è tempo di farsi delle domande sul limite fino al quale devono spingersi i soccorritori. «In certe circostanze anche noi, pur essendo abituati a confrontarci quotidianamente con il pericolo, dovremmo avere il coraggio di dire di no, di rifiutare un intervento. Invece mettiamo a repentaglio la nostra vita per salvare chi va fuori pista sapendo di rischiare la pelle». In val Gardena non è mai successo nulla di simile, ma questa tragedia - per il pioniere dell’elisoccorso in Alto Adige - deve servire da lezione anche alle future generazioni di soccorritori.
 Lydia Rauch, la dottoressa che ha redatto la constatazione di morte delle sei vittime della montagna, ammette di aver sperato fino all’ultimo. «Ci siamo spinti oltre i nostri limiti pur sapendo che con ogni probabilità avremmo trovato i nostri amici morti. Sono partiti per senso del dovere, ma la loro non è stata una decisione azzardata. Il compito più difficile è stato informare le famiglie e spiegare che i loro cari sono morti subito. Senza soffire».
 Sebbene siano costretti a rischiare la vita tutti i giorni questi angeli del soccorso non possono e non vogliono passare per eroi.
 «Chi fa questo mestiere - racconta Maurizio Tomanin, vicecoordinatore del 118 che presta servizio sia per l’Aiut Alpin che per il Pelikan 1 - non può permettersi di avere paura». Nessuno, fra i soccorritori, è uno sprovveduto. «Dobbiamo tenere conto di molteplici fattori di rischio, ma se in ballo c’è una vita non possiamo fare un passo indietro». Certo, talvolta, affiora un pizzico di delusione, perchè c’è la consapevolezza di dover intervenire ad ogni costo per salvare anche alpinisti supponenti che vanno in montagna ignorando i bollettini meteo e sfidando la sorte. Per gli angeli dell’Aiut il tempo per riflettere è già finito. Non ci si può fermare, nemmeno a piangere i propri amici. Gli interventi si susseguono, uno dopo l’altro, sulle piste e fuori pista. Al servizio di chi ha bisogno, sapendo di dover continuare ad operare in condizioni estreme.













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