L'intervista

Zollner: «Abusi, la Chiesa abbia il coraggio di dire la verità» 

Il gesuita germanico, membro della commissione pontificia, è stato a Bolzano per una giornata di formazione promossa dalla Diocesi. «In Italia fatica a partire il processo di elaborazione» 


Antonella Mattioli


BOLZANO. «Bisogna avere il coraggio di affrontare il passato, indagandone i diversi aspetti. C’è da capire innanzitutto quanti casi di abusi ci sono stati; in quali strutture sono avvenuti; chi ha consentito che l’omertà prevalesse sul bisogno di verità e giustizia. Se la Chiesa vuole essere credibile, deve fare questo percorso a ritroso nel tempo: lo deve alle vittime innanzitutto, lo deve a se stessa, se non vuole accontentarsi di un ruolo marginale».

Hans Zollner, 55 anni, gesuita germanico, presidente dell’International Safeguarding Institute (Iadc) di Roma e membro della Commissione pontificia per la tutela dei minori, non fa sconti a nessuno quando parla senza giri di parole, ma andando dritto a quello che è il cuore del problema: la necessità di elaborare e prevenire gli abusi nella Chiesa.

Tema delicato di cui si parla tanto all’estero - commissioni d’inchiesta sono state istituite in Portogallo, Spagna, Inghilterra, Germania, Svizzera - poco o quasi niente in Italia. Nei giorni scorsi padre Zollner era a Bolzano ospite della giornata di formazione interna promossa dalla Diocesi e rivolta a responsabili di Curia, sacerdoti, congregazioni religiose, associazioni ecclesiali.

Come spiega che in Italia si parli poco di questo tema?

Qualcosa si sta muovendo anche in Italia. Proprio a metà febbraio un gruppo di associazioni cattoliche ha lanciato la campagna #ItalyChurchToo, affinché si indaghi su quanto avvenuto nel passato. In Italia però l’iniziativa ha avuto scarso eco. Anche sui media. Potrà sembrare strano, ma se n’è parlato di più all’estero.

Il motivo, secondo lei?

Ci sono tante realtà nella società che impediscono che vengano portati alle luce certi abusi avvenuti all’interno della chiesa. Perché questo potrebbe far emergere situazioni analoghe verificatesi in ambienti come sport, turismo, cinema moda. Poi, a mio avviso, c’è anche un’altra questione.

Che sarebbe?

La questione sessualità. In Italia di questo tema si parla poco, in maniera seria e approfondita. Tanto invece a livello di battute e barzellette da bar. Un atteggiamento simile emerge dai risultati da una ricerca sulla sessualità in Africa e Sud America.

Non è dannoso, anche a livello di immagine oltre che di risarcimenti, per la Chiesa affrontare questi temi?

Certo, affrontare il proprio passato, andando indietro di 50-70 anni, è difficile e può far emergere verità scomode, ma la Chiesa non ha alternative. Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà; dobbiamo dire la verità. Più ammettiamo gli errori e più siamo credibili ed evitiamo di diventare marginali.

Per le vittime però, può essere difficile rivangare il passato.

Molte vittime non ne parlano mai neppure con i familiari più stretti. Perché è troppo penoso e c’è chi si vergogna. Aprire le vecchie ferite, significa farle sanguinare di nuovo.

E quindi?

La responsabilità è anche dei media. Se cominciano a parlare del fenomeno, c’è qualche possibilità in più che le vittime trovino il coraggio di rompere il silenzio.

Ma chi dovrebbe poi esaminare e verificare la veridicità delle denunce fatte dalle vittime?

Serve una commissione indipendente. Composta da persone esterne alla Chiesa, per evitare che si arrivi a risultati già precostituiti. Ne dovrebbero far parte esperti sia per quanto riguarda gli aspetti giudiziari che amministrativi. Perché le persone di Chiesa, quando si parla di questioni interne, rischiano di essere cieche.

Cosa si può fare a livello di prevenzione?

Bisogna lavorare innanzitutto per aumentare la sensibilità della società. Deve passare il messaggio che certi comportamenti non sono mai accettabili. Alla Pontificia Università Gregoriana abbiamo un corso specifico.













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