LA STORIA

«Ci sono voluti 80 anni perché Bolzano onorasse nostro padre»

Ivan ed Enzo Degasperi oggi hanno 89 e 92 anni: sono i figli di Tullio, operaio e partigiano del gruppo Longon, ucciso nel lager di Gusen a 39 anni. Ora lo ricorda una pietra d’inciampo


Luca Fregona


BOLZANO. «Vedi laggiù? Laggiù verso il casello dell'autostrada c'era l'entrata degli operai. Mio padre proprio lì sistemò un madonnina». Enzo Degasperi punta l'indice sul muro in cemento armato che fa da confine tra la strada e lo stabilimento Lemayr.

Ottant'anni fa qui c'era la Magnesio, una delle fabbriche più importanti della zona industriale. «Una piccola statua della Vergine Maria - continua il fratello Ivan - che papà volle mettere per proteggere gli operai che entravano ed uscivano. Chissà che fine avrà fatto... Quando hanno tirato giù lo stabilimento era stata portata nella chiesa di Don Bosco, ma poi è sparita».

Siamo in via Torricelli, alla rotonda che porta a Ponte Resia, marciapiede sul lato opposto della Lama Bolzano (oggi reparto Erre delle Acciaierie). Sul marciapiede, il 27 gennaio 2024, in occasione della Giornata della memoria, è stata posata una "pietra d'inciampo", un cubetto con una placca d'ottone e una scritta: «Qui lavorava Tullio Degasperi. Nato 1906. Arrestato 1944. Deportato Kz Bolzano. 1945 Kz Mauthausen. Assassinato 27.4.1945».

Dopo 80 anni una pietra di inciampo ricorda il partigiano Tullio Degasperi, uno dei "sette di Gusen"

Una lunga battaglia raccontata dai figli, Ivan ed Enzo

Tullio Degasperi era uno dei "sette di Gusen". Sette partigiani bolzanini del gruppo di Manlio Longon, arrestati dalla Gestapo nel dicembre del '44 e spediti a morire sull'ultimo convoglio di carri bestiame partito per la Germania dai binari di via Pacinotti il primo febbraio del '45. Sette partigiani. Sette bolzanini. Nessuno è tornato. Tullio Degasperi. Walter Masetti. Adolfo Beretta. Decio Fratini. Erminio Ferrari. Romeo Trevisan. Gerolamo Meneghini.

Enzo oggi ha 92 anni, Ivan 89. All'epoca avevano 12 e 9 anni. A quell'età i ricordi si fissano nella mente: un padre strappato ai suoi figli e ucciso, il corpo svanito. Un trauma che ti cambia la vita per sempre. «La pietra - osserva Enzo - l'hanno messa dove c'era l'ingresso principale della Magnesio. Peccato che non ci sia nulla che la segnali o che spieghi la storia di nostro padre. Rischia di perdersi. Comunque, siamo contenti, ci sono voluti ottant'anni, ottanta dannati anni, perché il sacrificio di quegli uomini venisse finalmente onorato dalla città».

Con una targa in cimitero e le pietre d'inciampo. Enzo e Tullio Degasperi si sono battuti per anni, nel silenzio più totale, perché il Comune "facesse qualcosa" e Bolzano ricordasse. Per molti decenni il tema era tabù, non si poteva parlare del lager di via Resia, del collaborazionismo, delle complicità. Per decenni sono stati respinti. Ma non si sono mai arresi. Hanno bussato alla porta di non so quanti sindaci e assessori, fino a quando. «qualcuno ci ha ascoltato».

Il sindaco Caramaschi ha commissionato una ricerca all'Archivio storico comunale. Il 27 gennaio scorso, come detto, i cubetti placcati ottone sono stati sistemati davanti alle abitazioni e ai luoghi di lavoro dei martiri di Gusen. «Speriamo che altrettanto venga fatto per i morti della Zona del 3 maggio 1945, uccisi dai tedeschi in una rappresaglia a guerra finita...».

Ivan e Enzo guardano assorti il muro e il palazzone anonimo con il neon arancione "Lemayr" che ha preso il posto della Magnesio. Loro, la fabbrica, la vedono ancora. La Magnesio, la Zona, gli stabilimenti, carne della loro carne. «Ottant'anni se ne sono andati in un battito di ciglia - dice Ivan -. Vedo gli operai arrivare in bicicletta, entrare ed uscire a fine turno. Nostro padre è qui davanti a noi, in tuta blu, come nella sua ultima foto. Lo vedo bene, chiaro, limpido. Non è passato un giorno della nostra vita senza ricordarlo, senza parlargli». Ed Enzo: «Senza di lui siamo diventati adolescenti, poi uomini, padri di famiglia e nonni. Ma oggi che ho quasi 92 anni non so cosa darei ancora per una carezza, per un bacio sulla guancia, per la sua mano stretta alla mia. Per quel gelato che, qualche mese prima, ci offrì in un bar di Trento, cosa rarissima perché era un "lusso". Lui era già nella Resistenza. Ricordo l'ombra di malinconia nei suoi occhi. Forse sentiva che era una specie di addio... Quella volta si fece scuro in volto. "Se mi succede qualcosa - disse - mi raccomando, state vicini alla mamma". Solo dopo ho capito cosa intendeva...».

Le parole soffocano in gola.«Il lager ha inghiottito mio padre e mi ha fatto orfano - dice Ivan -. Ricordo quando mi prendeva in braccio. Se chiudo gli occhi sento ancora il profumo della sua acqua di colonia. Ho il grande rimpianto di non averlo potuto conoscere davvero...». E ancora Enzo: «Ricordo quando mi caricava sul serbatoio della moto e mi portava in campagna o a caccia. O quando insieme, di notte, guardavamo gli aerei americani bombardare la ferrovia di Trento e la Flak sparare verso il cielo. "Enzo - mi diceva - non aver paura"...».

Il traditore

Il 14 dicembre 1944 la Gestapo arresta Manlio Longon. Tullio viene preso il 19 dicembre, insieme ad altri sei capicellula della Zona industriale. «Sappiamo chi li ha traditi», Enzo e Ivan non fanno nomi. Lo chiamano semplicemente l'«ottavo». «Era uno di loro, un compagno che non ha retto alle torture. Dopo la guerra lo abbiamo visto molte volte. Nessuno ha mai detto niente, non c'era bisogno. Non proviamo rancore. Erano tempi difficili. E non tutti nascono eroi».

Il biglietto dal carro merci

Torturati, pestati a sangue, nessuno dei "sette" apre bocca. Il primo febbraio 1945 le SS li portano ai binari di via Pacinotti insieme ad altri 541 internati del lager di via Resia. C'è la neve alta un metro, è una giornata livida, gelida, disperata. Tullio Degasperi non si fa illusioni. «Nostro padre era certo che non sarebbe più tornato», Ivan apre con cura un foglio di carta velina ripiegato più volte. È scritto fitto a matita. «1-2-45. Lina se riceverai questa mia vorrà dire che sono già partito per la Germania come deportato... Baciami forte i miei piccoli, digli di pregare tanto per il loro papà».È un testamento destinato alla moglie e ai figli, che Tullio fa cadere dal carro merci, avvolto in un sasso. Dalle feritoie vede un vecchio sulla strada. Urla Tullio, implora: «Ti prego, ti prego prendilo e portalo a LINA PALLAVER; VIA TORINO 18. Ti prego portaglielo».

Il vecchio si china nella neve, prende il biglietto. Il vecchio pedala su una bici bianca fino in via Torino. Ma Lina non c'è. Lui l'aspetta fino a sera tarda. Vuole essere sicuro che il messaggio finisca nelle mani giuste. Esaudisce l'ultimo desiderio di un condannato a morte. «Era un angelo sceso dal cielo - dice Ivan -. Senza di lui, non avremmo gli ultimi pensieri di papà...». Nella lettera, Tullio dà disposizioni molto precise. La sua preoccupazione sono i figli. «In quel periodo io e Enzo vivevamo a Trento - spiega Ivan - dai nonni paterni, in via Perini. I nostri genitori lavoravano qui a Bolzano. Il fine settimana venivano a trovarci. Nostro padre ci portava le trote che pescava nell'Adige. Era un uomo affettuoso ma anche duro. Molto razionale...».Mamma Lina scende subito a Trento a prendere i ragazzi. «Siamo arrivati a Bolzano con una colonna di tedeschi che ci ha lasciato a ponte Roma. Ricordo i fumi che salivano dalla Zona, le case popolari di via Torino... Da quel momento siamo diventati bolzanini. Nostra madre lavorava in un negozio in piazza delle Erbe».

In braccio a Manlio Longon

Tullio Degasperi faceva parte dell'aristocrazia operaia. Elettromeccanico, era originario di Trento, dove lavorava alla Michelin. Nel 1943 entra nella Resistenza. Manlio Longon lo chiama a Bolzano, alla Magnesio, dove viene messo a capo di un Gap, un gruppo di azione partigiana. Ivan ha un ricordo vivo di Longon. «Una volta venne a casa nostra, a Trento. Mi prese in braccio. Ero un bambino, non avevo la percezione di quello che stava accadendo. Longon era un uomo elegante e gentile. Il loro era un legame molto forte, cementato dall'antifascismo. Avevano scelto da che parte stare».

Assistono gli internati del lager di via Resia con una rete clandestina molto organizzata, forniscono informazioni preziose agli alleati. Tullio - che come nome di battaglia sceglie "Ivan", lo stesso del figlio più piccolo - è anche addetto alla propaganda, nasconde il ciclostile, tiene i contatti con gli americani. E poi: sabotaggi, azioni armate. «Come quando a Campodazzo hanno fatto saltare la ferrovia...». È un uomo maturo, esperto, coi nervi d'acciaio. Ha 39 anni, cinque più di Longon. È l'uomo di fiducia di Ferdinando Visco Gilardi, un capo partigiano straordinario che riuscì a far evadere decine di persone dal campo di via Resia. Tullio ai figli non dice nulla, nemmeno a Enzo, che è più grande e qualcosa intuisce.

L'ultima foto

Ivan mostra un'altra foto. Suo padre in tuta da lavoro alla Magnesio. «Questa foto ha una storia- racconta - : è stata trovata nel 1995 dai figli di un collega di papà dopo che era morto. La teneva nel portafoglio. Si chiamava Sante Brendolin». Dietro, in bella calligrafia, c'è scritto: «Compagno Degasperi Tullio, assassinato nel campo di concentramento di Mauthausen». «Capisci? - dice Ivan - l'ha custodita per tutta la vita...».

Un'altra foto: novembre 1944. Tullio abbraccia Enzo e Ivan sorridenti in giacca e calzoni corti. Dietro si legge: «Foto fatta senza un motivo, l'ultimo ricordo di papà». La Gestapo prende Degasperi il 19 dicembre 1944, cinque giorni dopo Longon, proprio alla Magnesio, in officina. «Il racconto di quella giornata - dice ancora Ivan - ci è stato fatto più volte dai compagni di mio padre. Un'operaia del reparto, staffetta partigiana, appena ha sentito arrivare i tedeschi ha fatto sparire la pistola che lui teneva sul tavolo da lavoro. Se l'avessero trovata, sarebbe stato fucilato sul posto. Quel giorno, quella donna gli ha salvato la vita».I tedeschi portano Tullio e gli altri sei al Corpo d'Armata. Il primo gennaio 1945 Longon muore nella cantine del palazzo, ucciso, impiccato. La ferita del tradimento riemerge come un fiume carsico. «Tutti sappiamo il nome della spia», sussurra oggi Ivan, quasi a scacciare il pensiero. Il Pci dopo la guerra ordinò anche un'inchiesta interna. «Ma poi non se ne fece nulla, è morto nel suo letto, meglio così».

Un Ave Maria per i me popi

Nel gennaio 1945 Tullio Degasperi viene rinchiuso nel lager di via Resia, blocco celle, accanto a don Daniele Longhi. «Don Daniele - dice al sacerdote - dì un Ave Maria per i me popi». Pensa solo ai figli. Tullio è comunista, ma un comunista credente. Il primo febbraio la partenza. L'ultimo convoglio dalla Zona industriale per i campi nazisti, il numero 119. Di Tullio e degli altri non si saprà più niente.

L'attesa del ritorno

Nell'autunno del 1945 iniziano a rientrare via Brennero i prigionieri dai lager liberati. Le famiglie affollano la stazione di Bolzano. Si cercano figli, fratelli, padri. Enzo Degasperi è un testimone diretto di quelle giornate terribili, cariche di attesa e delusione.

«Quando arrivava una tradotta, la voce in città si diffondeva in un baleno. Mia madre mi prendeva per un braccio e mi diceva "andiamo Enzo, andiamo a cercare papà..."». La stazione si riempiva di gente. «Un inferno. Madri che urlavano i nomi dei figli. Padri aggrappati a un filo di speranza. Mogli che piangevano... Tutti avevano una foto in mano e la mostravano». L'hai visto? Lo conosci? Ti ricorda qualcuno? È vivo? È morto? Sai dov'è? «Una scena straziante che si ripeteva a ogni arrivo. Tornavamo a casa sfiniti. E senza notizie di nostro padre». Nell'aprile del 1946 è la Croce Rossa internazionale a mettere la parola fine. Poche righe su richiesta di Lina.

«Tullio Degasperi deceduto a Gusen, 26 aprile 1945». Gusen, campo satellite di Mauthausen, a una manciata di chilometri da Linz, Austria. A Gusen i tedeschi obbligavano gli internati a lavorare per l'industria bellica. A guerra persa, hanno fatto saltare tutto. Hanno ammassato i prigionieri nelle grotte e minato. Così è morto Tullio Degasperi, partigiano, operaio di 39 anni, marito e padre di due bambini. Così sono morti i «sette di Gusen». I loro resti dispersi chissà dove. Lina lo dice ai figli. Enzo ormai ha 14 anni, Ivan 11. «In quel momento non provai niente - dice Ivan -. Erano anni duri. Avevo visto poco mio padre. Quasi non lo conoscevo.

Poi, crescendo, sentendo i racconti dei suoi amici, capendo cosa aveva fatto, il suo sacrificio... ho realizzato cosa avevo perso. Quando vedevo gli altri ragazzi giocare, confidarsi, crescere insieme ai loro padri, ricevere una carezza, beh, allora, mi rendevo conto del vuoto nelle nostre vite. Di quanto la guerra ci aveva tolto e non avremmo mai riavuto. Ci hanno mutilato». La notizia della morte a Mauthausen dei sette partigiani piomba sulla città. Un inaccettabile colpo di coda della guerra finita. Il cuore operaio di Bolzano sanguina. Piazza Matteotti, già provata, è in lutto. I compagni della Zona portano in piazza Don Bosco la madonnina che Tullio, anni prima, aveva messo alla Magnesio.

I compagni della fabbrica gli dedicano la mensa e il villaggio dello stabilimento. I compagni più vicini aiutano la famiglia. Sante Brendolin infila la foto di Tullio nel portafoglio e non la toglierà più per il resto della vita.













Altre notizie

Attualità