Lasa, la strage degli operai a guerra finita 

Dieci persone fucilate dai nazisti il 2 maggio 1945. Un paio di giorni dopo arrivarono gli americani



LASA. All’entrata del paese di Lasa, sul ciglio della strada a ridosso dei campi, si erge una grande lapide in memoria dell’eccidio perpetrato dai tedeschi la sera del 2 maggio 1945. Dieci sono i nomi scolpiti sulla lastra. Un avvenimento drammatico che sconvolse tutta la Val Venosta quando ormai sembrava che la fine della guerra non avrebbe portato altri spargimenti di sangue. Una giornata fredda, come ha raccontato Silvano Neri (1939) nel suo romanzo “Passaggio segreto”, una pagina di storia riportata con aderenza alla realtà. La mattina del fatidico giorno, nella polveriera di Cengles, il comandante tedesco che la presidiava si lasciò sfuggire che ci sarebbe stata, in Italia, la resa finale della Wehrmacht, dicendo ai suoi soldati che la guerra poteva dirsi conclusa e rendendo noto l’arrivo degli alleati. Un gruppo di operai italiani decise quindi di impadronirsi della polveriera impossessandosi delle armi di alcuni soldati tedeschi. Il comandante decise subito di venire a patti con i rivoltosi ordinando ai suoi uomini di consegnare le armi. Le donne che lavoravano nel deposito furono mandate a casa, seguite poco più tardi da diversi operai. In paese circolava però la voce di una vera e propria rivolta, tanto che i militari tedeschi che stazionavano a Lasa sollecitarono i comandi di Silandro e Merano a inviare dei reparti in assetto di guerra, a cui si aggiunsero anche militari volontari di Lasa che in breve tempo si reimpossessarono della polveriera. Gli insorti, tutti giovani senza esperienza, privi di organizzazione e senza un capo riconosciuto, cedettero le armi. Alcuni riuscirono a fuggire attraverso i boschi, ma undici vennero fatti prigionieri. Percossi e fatti salire su un camion militare, vennero condotti verso Silandro: vicino alla chiesa sconsacrata di San Nicolò, alla luce di qualche torcia elettrica, dieci furono fucilati e trascinati giù per la scarpata fino a una trincea antiaerea. L’undicesimo riuscì a liberarsi e a dileguarsi nel buio. Un altro soltanto si salvò da quel massacro, perché mentre ai colpi di fucile svenne dal terrore. Chi invece non fu risparmiato da quella strage fu l’ex medico condotto di Lasa, Michele Indovina, che proprio quella sera stava tornando in bici da Silandro dopo aver visitato una paziente. Intercettato dai tedeschi, venne portato al comando militare, dove fu torturato e ucciso. Il suo corpo fu gettato nella fossa insieme a quelli degli altri. Dopo pochi giorni, nel pieno della notte tra i quattro e il cinque maggio gli abitanti di Lasa vennero svegliati da un frastuono assordante: erano arrivati i carri armati degli americani.













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