Memoria

Per 12 anni a caccia di criminali nazisti «Nessuno si pentì»

Lui è Roberto D’Elia, bolzanino, generale dei carabinieri in pensione. Alla fine degli anni ‘90 fu incaricato di rintracciare Mischa Seifert, il “boia” del lager di via Resia. Poi indagò su alcune terribili stragi commesse nel 1944 e scovò ben 90 assassini


Paolo Tagliente


BOLZANO. «La giustizia ha sempre un senso, quando viene portata a compimento. Sempre». A chi gli chiede che senso avesse arrestare e processare dei "poveri" vecchi, sessant'anni dopo i fatti, Roberto D'Elia risponde senza esitazioni. E non ci possono essere esitazioni in un uomo che, per 12 anni, ha raccolto i racconti dei testimoni diretti dei crimini più efferati, ha passato mesi a cercare prove negli archivi e percorso il mondo in lungo e in largo a caccia di criminali nazisti. Classe 1951, generale dei carabinieri in pensione, D'Elia è un uomo alto ed elegante. Un'eleganza che non trova la sua essenza negli abiti, ma nel portamento, nei gesti e nella voce. Per dodici lunghi anni, lui e i suoi collaboratori hanno seguito le sbiadite tracce lasciate da mostri che, dal maggio del 1945, erano diventati all'improvviso fantasmi. Nelle confuse settimane seguite alla fine del secondo conflitto mondiale, un esercito di sadici aguzzini al soldo di Hitler aveva smesso la divisa disegnata da Hugo Boss e, forte di una vastissima rete di protezioni, era andato in frantumi. I mille pezzi di quella malvagia armata erano ricomparsi altrove, spesso in altri continenti, con altre identità, con altre professioni e falsi passati dietro cui nascondersi. Qualcuno era rimasto in Germania ed era riuscito a rifarsi una verginità, a ricostruirsi una vita rispettabile e, in qualche caso, a ottenere importanti ruoli nei nuovi assetti politici. Atrocità come quelle compiute a Marzabotto, a Sant'Anna di Stazzema, a San Polo, a Cefalonia, alla Certosa di Farneta rischiavano di non avere dei colpevoli. Anziani, uomini, donne e bambini, religiosi torturati, fucilati, arsi vivi o sepolti vivi durante la sanguinosa ritirata della XVI divisione corazzata "Reichsfuerher Ss" sugli Appennini Tosco-Emiliani rischiavano di rimanere ferite sanguinanti per generazioni, senza che ai responsabili di quei crimini fosse dato un nome e un volto. La caccia di Roberto D'Elia, però, prende il via proprio a Bolzano, dal campo di transito di via Resia. Lì, tra il 1944 e il 1945, un ventenne ucraino divenne l'incarnazione stessa del male: si chiamava Mischa Seifert.

Generale, quando è iniziata la "caccia"?

Tutto è cominciato tra il 1998 e il 1999, quando fui contattato dal procuratore militare di Verona Bartolomeo Costantini, magistrato e uomo eccezionale, che mi chiese di lavorare sui crimini di guerra e, in particolare, su quelli commessi all'interno del lager di Bolzano. Sotto la lente c'era Mischa Seifert, ucraino di lingua tedesca, chiamato anche il "boia di Bolzano". Un caporale delle Ss che tra il dicembre del 1944 e l'aprile del 1945 fu addetto alla sicurezza del campo di concentramento di via Resia. Seifert era un vero e proprio serial killer che sfogò tutta la sua crudeltà sui prigionieri. Credo si divertisse a a torturare e uccidere. Quindici gli omicidi che gli furono contestati, compiuti con modalità tali che, quando vado a parlare nelle scuole, evito di raccontare nei dettagli, tanto sono terribili. Seifert risultava ufficialmente "scomparso in guerra": questo avrebbe garantito a lui l'impunità e una vecchiaia serena e una pensione di reversibilità alla moglie. Ma Seifert non era morto: dopo essere rimasto nascosto qualche anno, nel 1951 aveva raggiunto il Canada e s'era stabilito a Vancouver. Faceva il falegname all'interno di una piccola comunità religiosissima che faceva capo a un parroco tedesco. Non era una coincidenza. La rete di protezione di cui potevano godere questi criminali era spaventosa. Per entrare in Canada aveva alterato i suoi dati anagrafici, risultava nato in Estonia anzichè in Ucraina, e al momento di chiedere la cittadinanza aveva ovviamente omesso di inserire una lunga serie di particolari. Non risultava essere mai stato in servizio nelle Ss, ad esempio. Non fu facile risalire a lui. Venne individuato per "colpa" di sua madre che, qualche anno prima, aveva lasciato una traccia rivelatasi poi determinante: la donna aveva chiesto alla Croce Rossa un sussidio per poter andare a trovare il figlio in Canada. Quando non vi furono più dubbi su chi fosse quel mite e devoto falegname, Seifert fu arrestato dalle Giubbe Rosse canadesi e vennero subito avviate le pratiche per il processo. Lui rifiutò di essere interrogato. Alla fine, nel 2008, fu condannato all'ergastolo per undici dei 15 omicidi che gli venivano contestati. È morto nel 2010.

La sua missione non si concluse con il ritrovamento Seifert. Fu solo la prima tappa di un lungo cammino di indagine.

Sì, grazie al procuratore militare capo di La Spezia, il dottor Marco De Paolis, anche lui persona eccezionale, ci mettemmo sulle tracce di altri ex militari nazisti ritenuti responsabili di crimini. Le indagini presero il via dai 695 fascicoli fascicoli d'inchiesta riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale e rinvenuti nel 1994 in un armadio di palazzo Cesi-Gaddi, a Roma. Lo chiamarono "L'armadio della vergogna". C'era anche un Registro Generale riportante 2.274 notizie di reato. Le notizie riportate nei fascicoli, raccolte all'indomani della fine del conflitto dai nuclei speciali di investigazioni dell'esercito statunitense e britannico, erano dettagliatissime. Avevano fatto davvero un lavoro eccezionale. Quel ritrovamento consentì di dare il via a nuove indagini, fondate su una mole incredibile di documenti, a cui vanno aggiunti a quelli reperiti in altri archivi , all'estero. Sto parlando degli archivi di Germania e Austria, del National Archive in Gran Bretagna e del National Archives and Records Administration, a Washington.

Nacque una vera e propria squadra specializzata?

Sì, nel 2004, presso la procura militare di La Spezia, fu creato un pool investigativo per i crimini di guerra. Stilai una lista di persone che avrei voluto con me, carabinieri perfettamente bilingui e anche un finanziere. Nel 2008, la sede del pool venne trasferita a Bolzano, al comando Legione carabinieri Trentino Alto Adige, dove gestivamo le indagini in Italia. Per quanto concerne l'estero, invece, il nostro comando era a Roma. Vorrei sottolineare che da parte del Comando Generale dell'Arma ci fu, da subito, la massima disponibilità. Fummo messi immediatamente nelle condizioni di lavorare al meglio e riuscimmo a trovare una novantina di criminali nazisti. Furono istituiti una ventina di processi e oltre sessanta furono gli ergastoli comminati. Ma fatto salvo Seifert, di cui siamo riusciti ad ottenere l'estradizione perché apolide, la Germania non ha concesso l'estradizione per nessuno dei criminali rintracciati. Sono stati tutti processati e condannati in contumacia. E hanno continuato a condurre le loro tranquille vite. Nel corso delle indagini, da polizia e procura ottenemmo la massima collaborazione, gli archivi erano sempre aperti. Al momento di concedere l'estradizione, però, il Ministero della giustizia fece orecchie da mercante. Non si mosse nemmeno quando, conclusi i processi, nei confronti di quei criminali furono emessi mandati di cattura europei. Ma noi cercavamo giustizia, non vendetta: questo mi ha permesso di chiudere, almeno in parte, le ferite dei sopravvissuti. Il pool ha cessato la sua attività nel 2017.

Lei ha avuto modo di incontrare questi uomini. Qual era il loro atteggiamento? Nessuno di loro ha mai collaborato. Nessuno di loro si è mai pentito. Anzi, sono convinto che, se avessero potuto compiere nuovamente i crimini di cui si erano macchiati, lo avrebbero rifatto. Erano in contatto fra di loro e, spesso, sono emerse intercettazioni in cui si avvertivano l'un l'altro dell'arrivo degli inquirenti, invitandosi a vicenda a respingere ogni accusa e a negare tutto. E così accadeva ogni volta, fino a quando non venivano inchiodati alle loro responsabilità da prove documentali. Ricordo che andammo a casa di un importante esponente politico tedesco che era stato anche consigliere del cancelliere Willy Brandt. Viveva in una lussuosa villa. Si chiamava Konrad. Ero con alcuni gendarmi della polizia tedesca, bussai alla porta ed entrammo. Gli contestai di aver commesso dei crimini nel nostro Paese e, nello specifico, di aver partecipato alla strage di San Polo, il 14 luglio del 1944, in cui furono trucidate 65 persone. Lui negò. Negò senza esitazioni. Negò perfino di essere mai stato in Italia e di conoscere l'italiano. Io e lui parlavamo, intanto gli agenti perquisivano la sua bellissima casa. Ad un certo punto, mentre l'uomo continuava ostinatamente a respingere ogni accusa, si presentò una poliziotta. In mano, la donna teneva un attestato che certificava la frequenza ad un corso di italiano, tenutosi a Roma durante l'occupazione, e un diploma firmato da Adolf Hitler in persona. Li aveva trovati ben nascosti dietro una libreria. Su entrambi i documenti, ovviamente, oltre al suo nome e al suo grado di ufficiale, c'era anche il nome del reparto. Dati che lo inchiodavano alle sue responsabilità. Ricordo che mi guardò negli occhi e mi disse: "Lo sa che ora dovrò suicidarmi?" "Faccia ciò che meglio crede" gli risposi. Non si suicidò, ma morì prima di essere processato. Ricordo che in un'altra occasione, ci recammo a casa di quello che era stato un tenente colonnello, comandante di una banda musicale. Sapevamo che quei musicisti non si erano limitati a suonare marce militari, ma avevano partecipato a un rastrellamento cui era seguito un eccidio. Lui fingeva addirittura di non sapere nemmeno di cosa stessimo parlando. Non ricordava che, in quei drammatici giorni, si era invaghito di una ragazza del posto, sorella di un partigiano, e le aveva consegnato un biglietto con il suo nome, cognome e gli estremi per contattarlo. "Mi piacerebbe incontrarti - le aveva detto - questo è il mio indirizzo". Un gesto che, oltre i 60 anni più tardi, lo smascherò. Ci sarebbero mille storie come queste da raccontare.

Ha conosciuto i carnefici e anche le vittime, ascoltando le testimonianze dei pochi sopravvissuti a quegli eccidi. Deve essere stato emotivamente difficile.

Sì, ho provato grande pena perché costringevo quelle persone, che al tempo dei fatti erano bambini o ragazzi, a rivivere quell'orrore. Non è stato facile. Né per me né per loro. All'inizio erano vittime di un blocco, rifiutavano di ricordare. Poi, parlando con loro, spiegando quanto fosse importante la loro testimonianza, si sono aperti e mi hanno raccontato le atrocità viste e subite. Sto parlando di bambini che sono sopravvissuti solo perché rimasti immobili sotto i corpi dei loro genitori uccisi oppure di ragazzi che sono riusciti a nascondersi in alcuni forni e hanno potuto vedere con quale furia i nazisti uccidevano i loro cari. Per avere un'idea di cosa videro quei piccoli, basti pensare a quanto accadde a Marzabotto. I nazisti fecero uscire i bimbi dall'asilo insieme alle maestre e trucidarono tutti. Sulle croci in ferro del cimitero sono ancora visibili i fori dei proiettili. Sono ad altezza di bambino.

Quale effetto hanno avuto quei racconti su di lei?

All'inizio, quello che avevo udito dai testimoni, letto sui documenti e scritto nelle mie relazioni mi ha tolto il sonno per una settimana. Poi ho capito che dovevo andare avanti. Che dovevo continuare a perseguitare quelle persone per far capire a tutti fin dove può arrivare la brutalità dell'essere umano.

In quegli intensi dodici anni, c'è qualcosa che non è riuscito a portare a compimento?

L'unico mio rammarico è legato al non essere riuscito a rintracciare e catturare Otto Sein, braccio destro di Seifert nel lager di Bolzano e complice di molti crimini. Di lui, dopo la guerra, si è persa ogni traccia e nessuno ha più saputo che fine avesse fatto. Nel corso delle sue indagini, si è imbattuto anche in molti altoatesini. Sistematicamente, ad ogni ricorrenza dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, infuria la polemica sull'identità dei componenti il Battaglione Bozen, obbiettivo dell'attentato di via Rasella che portò alla rappresaglia nazista. Quale fu l'approccio degli altoatesini con la divisa del terzo Reich?

Gli altoatesini non sono mai stati filonazisti e il battaglione Bozen era davvero composto da uomini normali, padri di famiglia, alcuni già avanti con l'età. In generale, ho potuto constatare che gli altoatesini sono brave persone, legatissime alla loro terra. Grandi lavoratori. Un popolo pacifico che si trovò tra l'incudine e il martello. Quando ci furono le opzioni, chi scelse di andare in Germania, finì arruolato e poi mandato a morire sul fronte Russo. Quelli che decisero di rimanere, i dableiber, invece, si trovarono perseguitati e privati dei diritti a casa propria. E anche molti di loro finirono per morire in guerra.

Lei ha lavorato per anni, seguendo le tracce di criminali spesso "protetti" da poteri nemmeno tanto occulti. Qualcuno ha cercato di intralciare il suo lavoro e quello dei suoi uomini?

Certo. Ho ricevuto minacce di morte. Ricordo che mi fu recapitata una lettera scritta in inglese in cui mi si minacciava di morte. Arrivò nella caserma all'interno della quale vivevo con la mia famiglia. Non erano molte le persone che conoscevano questo particolare, ma chi scrisse quella missiva lo sapeva benissimo. Questo la dice lunga su quanto ampia e quanto ben informata fosse la rete di protezione di questi criminali.

Come ha reagito?

Le minacce non mi hanno né intimorito né distolto dalla mia missione. Anzi, mi ha dato un ulteriore stimolo per andare a cercare e smascherare quei tranquilli nonnetti che se ne stavano insieme ai loro nipotini, giocando con gli orsetti di peluche, dimenticandosi dei bambini, dei genitori, dei loro nonni e delle loro nonne barbaramente massacrati, dando fuoco alle case e alle chiese, con i parroci in prima fila. Sì, perché i nazisti avevano come obiettivi primari i religiosi e i carabinieri. Pensai che a Sant'Anna di Stezzema, come gesto di sommo spregio, dopo aver trucidato tutti, portarono fuori i banchi dalla chiesa e li accatastarono sui cadaveri, appiccandovi poi il fuoco. I pochi testimoni sopravvissuti hanno raccontato che tra quei criminali alcuni parlavano il dialetto toscano. Erano fascisti che avevano guidato i nazisti fino in paese e che si nascondevano il volto con le tute mimetiche. Non potevo fermarmi

Lei ha parlato della sua famiglia: che ruolo ha avuto?

Devo tutto a mia moglie e ai miei due figli, che mi hanno sempre supportato e sopportato. Prima, durante i cupi Anni di piombo, nel nostro lungo peregrinare in numerose città italiane, nei diversi incarichi, tra quali anche il comando di un Reparto operativo in Lombardia, poi durante i dodici anni passati a caccia di nazisti. Alla fine, tornato a Bolzano, sono stato capo di Stato maggiore della Legione carabinieri Trentino Alto Adige. Tanti traslochi e, per i miei figli, tante scuole cambiate, tante amicizie perse. Mi sono sempre stati vicini, consapevoli dei disagi e dei pericoli che questo comportava. Senza di loro non avrei fatto ciò che ho fatto e non sarei ciò che sono.

Lei incontra i ragazzi delle scuole, racconta la sua storia, parla dei criminali arrestati, della follia nazista e dell'immenso dolore causato milioni di persone. Anche questa è una missione.

Proprio così, credo sia indispensabile spiegare alle giovani generazioni cos'è accaduto e far capire loro quanto pericolose possano essere certe ideologie. Sono convinto sia l'unico modo per evitare che l'uomo possa ripetere certi errori. Leggere gli striscioni e sentire gli slogan di certi ultrà, negli stadi, mette i brividi. Nutro una profonda avversione verso il razzismo e l'antisemitismo che, oggi come allora, si sta nuovamente manifestando nei modi che vediamo, con sempre maggiore virulenza. Specialmente contro il popolo ebraico che tanto ha dato e dà alla nostra nazione con grandi donne e uomini in tutti gli ambiti socio economici , culturali e umani.













Altre notizie

fotogalleria

Merano Flower Festival, magia di primavera: tutti pazzi per le peonie

Lungo il Passirio si è conclusa ieri, domenica 28 aprile, la quattro-giorni della tradizionale manifestazione primaverile, con tanti stand dedicati a fiori, sementi, piante ed eno-gastronomia del territorio. Spazi per il relax cullati dalle note del piano sulla terrazza del Kurhaus. Curiosità per l'idrocultura e le piante carnivore. Divertimento e creatività nei workshop per i bimbi e interesse per le conferenze nella serra Limonaia (foto Luca Marognoli)

Attualità