L'INTERVISTA don vijo pitscheider 

«I miei 50 anni di sacerdozio vissuti come dono» 

Il decano della Val Gardena. Fu consacrato a Bressanone nel 1970 «Sono stati decisivi la mia famiglia contadina e la religiosità popolare, lo studio al Vinzentinum e infine il passaggio al seminario»


Stefano zanotti


ortisei. Ortisei ha festeggiato il 50° anniversario di sacerdozio del parroco e decano Vijo Pitscheider, nato nel 1944 a Corvara. Dopo aver concluso la scuola elementare a Corvara, Pitscheider ha frequentato le medie all’Istituto vescovile Vinzentinum e la scuola superiore e di teologia nel seminario di Bressanone. È stato consacrato sacerdote il 29 giugno 1970 nel duomo di Bressanone dal vescovo Joseph Gargitter. La messa novella fu celebrata nel suo paese natale, Corvara. Dal 1970 al 1977 è stato cappellano prima a Postal, poi a Badia e a Ortisei. Quindi ha perfezionato gli studi di dottorato in Scienze sociali all’Università Gregoriana a Roma ed è stato assistente del Kvw-Acli e maestro di religione dal 1983 al 1988. Parroco dal 2001 al 2010 a Millan, dal 2010 Pitscheider è tornato a Ortisei. Oltre che decano della Val Gardena, dal 1° gennaio 2012 è moderatore della Unione pastorale gardenese.

Decano Vijo, un bel traguardo il suo. Ricorda la chiamata al sacerdozio?

“Sono nato prematuro al settimo mese e da lì ho percepito la mia vita come una cosa da conquistare, curare e apprezzare, perché molto delicata. In questa fatica di vivere ho interpretato la mia esistenza come vocazione a viverla in compagnia di persone che mi hanno educato anche nella religione. Mi sembrava di essere più adatto allo studio che alla vita contadina nel cui ambito sono nato”.

Come ha vissuto la giovinezza tra studio e sacerdozio?

“Per me, sono stati decisivi la mia Famiglia di contadini con una religiosità popolare, lo studio al Vinzentinum e il passaggio al seminario di Bressanone. Esperienze che mi hanno formato per il sacerdozio”.

Poi è arrivata l’ordinazione.

“Non sentivo il bisogno di raggiungere altro. Tanto meno temevo la solitudine in quanto avevo la vocazione donata da Dio, i fedeli e il supporto della Parola di Dio”.

E dopo ci sono stati momenti di incertezza, dubbi?

“Come sacerdote rimango persona umana e come tale esposta a difficoltà, ma ho sempre avuto fiducia nella scelta vocazionale. È fiducia in Dio e, se le incertezze che fanno parte dell’esistenza umana, vanno affrontate, pensate e trasformate in fiducia più stabile”.

Cosa significa festeggiare 50 anni di sacerdozio?

“Per me significa rivolgermi a Dio, ringraziarlo di avermi guidato fin dall’inizio della mia vita e di avermi accompagnato per tutta la vita anche attraverso l’incertezza della vita stessa. Significa pensare a tutte le persone che mi hanno accompagnato, sostenuto, amato. E significa essere persona penitente, che conosce con umiltà la propria fragilità e chiede perdono alle persone e a Dio per trovare pace. In questi 50 anni si riassume il percorso della vita, fatta di grazia, e si scopre che la vita è il viaggio più bello che possiamo fare. Io sono passato da una religiosità molto stretta e rigorosa, fatta di paure, a un rapporto con Dio secondo la parabola del buon Samaritano”.

Il rapporto con i parrocchiani?

“Nel rapporto con persone e parrocchiani ho vissuto tutto rispettando la loro libertà. Mi dispiace vedere che c’è qualche volta poco interesse a vivere un rapporto verticale con Dio, nel segno della fede”.

C’è un episodio o una situazione, un’esperienza significativa a cui ripensa in questi 50 anni?

“Il passaggio dal piccolo mondo contadino, fatto di proibizioni e controlli, allo studio di teologia a Bressanone e allo studio gregoriano a Roma è stato un passaggio di grande importanza per me”.

Quanto sono stati importanti, nella sua esperienza, la comunità, il dialogo con i confratelli, il lavoro pastorale, l’incontro con la società civile e politica?

“Molto. Ho avuto la fortuna di vivere il sacerdozio dopo il Concilio Vaticano II, in una Chiesa calata nel mondo di oggi e sono passato da un clima di forte clericalismo a una chiesa con l’apporto dei laici”.

Ha mai pensato: “Se non avessi fatto il sacerdote, cosa avrei fatto nella mia vita”?

“No. Ho sempre vissuto la mia vita come impegno ad aiutare tutti coloro che vivono con difficoltà”.

Cosa crede che debba cambiare nel servizio sacerdotale e cosa invece rimane nel tempo?

“Il sacerdote vive la sua missione: deve uscire dal suo egoismo, incontrare le persone, dialogare, aiutare i laici a scoprire la loro vocazione. Il sacerdote è sempre una guida e nella mia esperienza ho imparato che la vita è unica, fatta di molte opportunità che vanno colte con spirito vivace. La vita è il tesoro che possediamo e questo tesoro è composto da talenti, capacità professionali, da contributi, da grazia e misericordia da parte di Dio”.

E ora cosa chiede alla vita?

“Non bisogna pretendere delle cose, ma dare alla propria vita impulsi, amore, idee e creatività. Ho vissuto con semplicità, con umiltà, consapevole delle mie capacità, ma anche dei miei limiti. Chiedo di essere trattato con tolleranza, comprensione, con tenerezza, passione e rispetto. A tutti auguro di scoprire l’avventura della propria vita come dono, come offerta, come possibilità per diventare persone umane, capaci di comunità, di solidarietà e aperte su Dio, che è la fonte della vita e che sarà anche colui che completa la nostra vita frammentata”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA















Altre notizie

Attualità