«Cari mamma e papà, cari amici, caro mondo, oggi tiro fuori l’orgoglio» 

Chiara Avanzo. La 21enne canta il suo grido contro l’omofobia in un rap pieno d’amore


Sara Martinello


Merano. «Cara mamma, caro papà/cari amici e caro mondo/ ho nascosto per vent’anni questo orgoglio». Sono i primi versi di “Same Love”, brano di Chiara Avanzo – in arte, Mulanzo – lanciato pochi giorni fa e già arrivato all’obiettivo. «Alcune persone mi hanno detto di essere state aiutate dalla mia canzone a fare coming out», la rapper meranese lo dice al telefono con una voce che sa di gioia piena.

Ventun anni, studente di Scienze sociali per la globalizzazione alla Statale di Milano, Mulanzo l’avevamo conosciuta l’anno scorso insieme a Zia B, Laura De Marchi, quando come NBWD (No Balance Without Diversity, nessun equilibrio senza diversità) avevano generato la scossa di “Bella Merano”. Avevano appena iniziato a ricevere chiamate per i primi live a Milano, quando è scoppiata la pandemia: a Merano invece è l’Est Ovest a essersi interessato alla loro musica, con un progetto che presto potrebbe concretizzarsi.

Avanzo si muove tra contestazione e rivendicazione, dal personale al sociale, la carica di una giovane donna esplode in una supernova arcobaleno. Una formazione musicale che affonda nel canto e nel pianoforte e che negli anni del liceo ha teso l’orecchio al rap – dalla nuova alla vecchia scuola, da Nicki Minaj fino a East e West Coast. «Ascolto donne e uomini. Ora c’è un apporto femminile su temi che prima erano un tabù, e il rap delle donne ha molta più visibilità». Avanzo graffia la superficie. Della narrazione dell’affettività, dell’estetica hip hop. «Vi racconto una storia, la mia/che mi ha tolto ogni respiro/fino a che la verità/ha ridipinto questa mia malinconia».

In “Same Love” troviamo echi di solitudine tra le montagne meranesi. Quali sono le sensazioni di una ventenne della comunità Lgbtqia+? Che cosa offre il territorio?

So che è stato aperto lo sportello Spiq per persone in difficoltà, ma altro non mi viene in mente. O non c’è, o forse non viene pubblicizzato abbastanza. A Milano c’è porta Venezia, c’è via Lecco, ci sono locali, per strada non hai la sensazione di essere giudicata se dai l’impressione di essere “diversa” da quella che qui a livello sociale è la “normalità”. Ma ci si può sentire soffocati, schiacciati, anche negli ambienti più tolleranti: per fortuna la mia famiglia, i miei amici e le persone vicine hanno accolto il mio coming out.

Ecco, il coming out. Tutta un’altra cosa rispetto all’outing. La mancata conoscenza dei significati può ferire altre persone: qual è il primo passo per una comunicazione sana?

Innanzitutto si possono abbandonare le associazioni d’idee tra indumenti e orientamento sessuale o identità di genere. Poi ci sono parole che descrivono la sessualità ma che sono usate in senso dispregiativo, come “frocio”. Ho sentito alcuni miei amici maschi etero usare un’espressione decisamente sessista per prendere in giro chi tra loro perdeva alla Playstation, quindi ho detto loro che se non fai parte della comunità certe espressioni non puoi usarle senza causare dolore. Non puoi usare la scusa dell’ironia. È un discorso parallelo a quello intorno alla n-word (“ne*ro”, ndr) per le persone nere. E allora noi ce le riprendiamo, queste parole. Le usiamo tra di noi e verso l’esterno per annullare la loro carica violenta.

In immagini, viene in mente l’esibizione dei corpi liberi nelle piazze. La favolosità.

Il mostrarsi appartiene da sempre alla comunità queer, a partire dagli uomini gay e dalla comunità drag. Penso che sia un buon veicolo. D’altra parte “siamo tutto, ma siamo anche niente”: siamo tutti i mali del mondo e tra di noi c’è chi non può esprimersi e nell’invisibilità soffre. Serve visibilità per liberarsi dal giudizio che schiaccia.

Sugli uomini gay pesa la tara della “debolezza”, di una mascolinità “non raggiunta”, “fallita”. Sulle donne lesbiche grava il tabù di un utero “sprecato”. Lei che cosa sente?

C’è un collegamento con la cultura hip hop, che poi nella mia compagnia è seguita da più persone. La donna lesbica o mascolina è vista come “una che ha stile”, perché a prescindere dal suo sentire è assimilata ai rapper uomini. Il che resta comunque sessista. C’è maggiore omofobia nei confronti degli uomini gay. Nella trap? Cambia il senso estetico, troviamo uomini con glitter e abiti attillati, ma nei testi resta una tendenza sessista e omofoba.

Lei è femminista?

Sì. Penso che il tema della disuguaglianza di genere si incroci fortemente con l’omobitransfobia. Nel confronto col diverso sono sempre stata molto sensibile a tutti questi temi. Ed è difficile che esista una femminista che non supporti la comunità queer, visto anche lo stretto legame con la questione della mascolinità tossica.

“Same Love” ci parla anche di famiglie. Tante, diverse, accomunate dal sentimento dell’amore.

Faccio un esempio: nonostante l’ambiente familiare “tollerante”, dai parenti più anziani può succedere di sentirsi assillare sul fidanzato, sul matrimonio... Sono domande semplici e fatte in buonafede, con l’interessamento affettuoso di un nonno o di una nonna, ma feriscono. Come glielo spiego, che non avrò mai quel tipo di vita? Ho iniziato a sentirmi più sicura dopo aver fatto coming out. Lì è cambiato tutto, in meglio. Prima era difficile parlare ai miei genitori dei miei progetti e dei miei sogni per il futuro. Però conosco anche persone per le quali rivelare alla famiglia un orientamento sessuale “diverso” ha peggiorato le cose: se ci penso, se mi immedesimo in loro, non riesco a immaginare come farei.

E poi c’è la famiglia di amiche e amici della videoclip della sua nuova canzone. “Amicu”, nella lingua della nonviolenza.

Nel video più della metà appartengono alla comunità queer, ma più o meno due su cinque sono persone etero che semplicemente hanno voluto sostenermi. Curioso che siano quasi tutte ragazze, a parte due amici maschi. È perché nonostante l’adesione alla causa alcuni possono sentirsi a disagio, temono di essere giudicati da chi non li conosca e di essere assimilati alla comunità queer. Abbiamo girato in parte al Pippo, al Talvera, in parte alle scuole Toti e in parte in un parcheggio a Lana. Laura ha girato e montato il video, e le persone coinvolte sono state contattate da me. Avrei voluto tanto, ma tanto includere anche persone transgender. Ma non ne conoscevo, né mi sarei permessa di scrivere a sconosciute o sconosciuti che magari avrebbero potuto percepire il mio interessamento come un’intrusione.

Ha un ultimo messaggio?

Sì. Spero davvero che il nostro video, ma pure le iniziative future, possano cambiare qualcosa. Anche a Merano ci sono bambini e ragazzi che stanno soffrendo perché non possono essere come sono o perché non possono amare. Cari omofobi, voi odiate l’amore che predicate. Fratelli in chiesa, sentinelle per strada. È un paradosso.

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