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Dino Buzzati, anche questo è amore



Lessi la prima volta “Un amore” di Dino Buzzati da giovanissimo, forse non avevo neanche dodici anni. Non posso dire che mi fu tutto chiaro, ma intuii qualcosa in quelle pagine, sulla forza dell’amore, sul suo potere generativo, la sua capacità di creare mondi, o di trasfigurare le cose che abbiamo intorno a noi. Lo intuii soprattutto leggendo quel passaggio in cui il protagonista, Dorigo, un architetto cinquantenne, alla guida della sua auto, va a trovare la sua amata, Laide, una giovanissima prostituta conosciuta in una casa di appuntamenti di Milano. Ai due lati della strada sfila il paesaggio italiano, la campagna, gli alberi e così via. Ma a Dorigo non sembra più il paesaggio che ha visto tante volte, sembra qualcosa di diverso. Il suo desiderio d’amore, il sentimento che lo invade, misto all’impazienza di rivedere la ragazza per la quale ha perso la testa, hanno il potere di trasformarlo.

Se nella leggenda di re Mida tutto quello che toccava il re diventava oro, nel delirio amoroso tutto ciò con cui l’innamorato entra in contatto muta la sua forma, diventa nuovo, meraviglioso. O invisibile. Così, Dorigo non riesce nemmeno a riconoscere gli inganni – assolutamente plateali – di Laide. Non è che non li vuole riconoscere, è che non li vede. Perché l’amore, oltre ad essere cieco, rende ciechi.

Scritto nel 1959, pubblicato nel 1963, il romanzo di Buzzati è una prova stilistica di notevole fattura. Scritto in terza persona ma con frequenti monologhi interiori, scavalcando le normali regole della punteggiatura e della sintassi, è un romanzo psicologico molto moderno non solo nei contenuti ma anche nella forma.

Ed è un romanzo su Milano, la Milano che si trasforma, sotto la sferza dello sviluppo economico, ma in cui sopravvivono mondi nascosti, le strade livide dominate da “camini, sfiatatoi, caldaie a nafta, ciminiere delle raffinerie Coloradi”, i cortili su cui si affacciano le famose case a ringhiera. E anche le case di appuntamento, che oggi sembrano sideralmente lontane nel tempo, ma che in realtà vennero chiuse solo con la legge Merlin del 1958, e che quando è ambientato il romanzo, nel 1960 ci spiega l’autore, sono già clandestine.

La Milano di Buzzati ne richiama un’altra, descritta altrettanto magistralmente in quegli stessi anni di boom economico e migrazioni interne, dal Sud al Nord dell’Italia, che avrebbero cambiato il volto del Paese. È la Milano descritta dal maremmano Luciano Bianciardi ne “La vita agra”, pubblicato non a caso nel 1962. Due scrittori dalle origini e dalle esperienze molto diverse, Buzzati e Bianciardi, pur se entrambi giornalisti. Due penne che hanno raccontato con la stessa incisività i cambiamenti in arrivo (che preludevano ad altri, ancora più radicali cambiamenti, quelli del 68), nella società e nelle grandi città industriali italiane, ma più in generale nei rapporti fra uomini e donne, nei sentimenti, nella sessualità, nell’amore.













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