GIÙ NELLA VALLE LA MONTAGNA DI COGNETTI 

La scrittura di Paolo Cognetti si è fatta via via sempre più asciutta, scabra, “orizzontale”. Una scrittura di gesti, azioni, dettagli ambientali e paesaggistici, più che di pensieri. Di cose che i...



La scrittura di Paolo Cognetti si è fatta via via sempre più asciutta, scabra, “orizzontale”. Una scrittura di gesti, azioni, dettagli ambientali e paesaggistici, più che di pensieri. Di cose che i suoi protagonisti fanno, o vedono, perché sono donne e uomini che non sono capaci di stare con le mani in mano a contemplare il paesaggio, su una panchina affacciata sulla valle. Fanno cose: percorrere un sentiero, ordinare da bere in un bar di fondovalle, guidare un pick up, scortecciare un tronco, mangiare, fare l’amore, litigare.

È questa la cifra stilistica dell’autore di “Le otto montagne”. Ed è questa la sua forza. Anche quando al lettore è dato di vedere dentro la mente dei suoi personaggi, trova eventi, fatti, decisioni, spesso ricordi quasi mai speculazioni metafisiche, riflessioni ampie sull’esistenza o verità enunciate

Succede anche in questo “Giù in valle”, appena pubblicato da Einaudi. Un altro romanzo breve, dopo “La felicità del lupo”, il che mi aveva messo in allarme. Non che io idolatri i romanzi-fiume per partito preso, anzi, a volte li trovo un po’ arroganti. Ma l’estrema brevità può nascondere delle debolezze. A livello di ispirazione, quantomeno.

Non è questo il caso. Il romanzo conferma in pieno le capacità di un autore che, ho notato, ha anche una piccola ma agguerrita pattuglia di detrattori, oltre che un esercito di estimatori. Succede con chi ha molto successo partendo dal nulla o quasi. Cognetti è partito anni fa nientemeno che da New York, con due guide-cult della Grande Mela. Ed è approdato alla montagna. Un bel salto. Ma evidentemente, aveva dentro entrambi questi mondi. E i linguaggi per raccontarli, perché le sue storie sarebbero fragili se non poggiassero sulle strutture adeguate

La montagna di Cognetti è appassionante perché lontana dai luoghi comuni. Anche questa Valsesia, inquinata, popolata di discariche e cementifici, dove è ambientato il suo nuovo lavoro. Un romanzo corale, che ruota attorno a due fratelli, simili ma diversi, a una donna che ha abbandonato la città per le asprezze della valle, e ad un cane, o forse un lupo, o un mix dei due, che lascia dietro di sé una scia di suoi simili, mentre risale il torrente assieme alla sua giovane compagna. Non è una montagna incantata. Non è l’estremo rifugio del cittadini alla ricerca della wilderness. È un luogo duro, dai bordi netti, che puzza di alcol e dell’odore dei lavori, perlopiù manuali, a cui si dedicano i suoi abitanti. Una montagna come il Nebraska che potrebbe cantare Springsteen, in un accostamento che qualcuno ha trovato forzato ma che per me ci sta in pieno. Una montagna forse meno leziosa di quella del nostro Trentino Alto Adige, anche se i punti di contatto ci sono. Una montagna “periferica”, come le periferie americane di Raymond Carver, evocato dall’autore nella postfazione.













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