L'intervista

«L'opera è contemporanea se racconta qualcosa di noi»

Matthias Lošek ha chiuso il suo mandato alla stagione operistica della Fondazione Haydn. «E’ fondamentale coltivare una visione e noi abbiamo cercato di catturare l’immaginazione del pubblico»


Daniela Mimmi


Bolzano. Un altro addio alla Fondazione Haydn. Questa volta a lasciare, al termine del suo mandato, è Matthias Lošek, curatore artistico e responsabile della stagione operistica della Fondazione Haydn dal 2015/16. Austriaco, nato a St. Pölten nel 1969, fin da giovane si è dedicato sia al teatro musicale classico che a quello contemporaneo, occupandosi di regia e produzione sulla scena indipendente di Vienna, Salisburgo e Bassa Austria. Dal 2000 al 2007 è stato il direttore artistico della sezione contemporanea dei Bregenzer Festspiele e ha curato la programmazione della sezione concertistica e teatrale. In seguito si è occupato di politica culturale prestando consulenza all'assessorato alla cultura della città di Vienna. Dal 2010 al 2015 ha assunto la direzione artistica del festival di musica contemporanea Wien Modern. Lo abbiamo intervistato.

Un bilancio della sua esperienza come direttore artistico dell'opera contemporanea per la Fondazione Haydn?

In questi anni abbiamo fatto un lavoro fantastico, davvero unico. Abbiamo creato uno spazio fisico e mentale dove le persone si sono potute fare un'idea di com'è l'opera oggi. Per me ogni buona opera, quando è capace di raccontare qualcosa che riguarda noi stessi, è contemporanea. Se non crediamo a quest'affermazione non crediamo nell'arte, la viviamo solo in modo depotenziato, come una forma di intrattenimento. Vedere, capire: per me l'opera è questo. L'opera può davvero essere un modo divertente di comprendere il mondo: può essere il posto in cui indossare un nuovo abito, ma anche un vecchio paio di jeans.

Di cosa è più orgoglioso?

Sicuramente tutto il progetto Opera Euregio, ma anche il Concorso di teatro musicale Fringe perché attraverso queste formule siamo riusciti a commissionare nuove opere valorizzando le competenze del territorio. All'inizio ci si chiedeva: perché qui in Alto Adige? Perché noi? Dopo la pandemia la tendenza generale è stata di pensare che il pubblico aveva bisogno di riavvicinarsi al teatro, all'arte in modo semplice: io non penso sia la strada giusta. A volte mi sembra che nella nostra società tutto debba essere facile. Sta invece a noi chiederci: perché siamo qui? Cosa stiamo facendo? Chi siamo? A queste domande risponde l'arte. A Bolzano sono approdate importanti riflessioni: alcune opere si sono rivolte all'universo femminile. Pensiamo a Peter Pan - il vero titolo doveva essere Wendy - all'opera La Wally, o alla Cavalleria rusticana, a La traviata, a La bohème.

Quale è stata la sfida più grande?

È stato complesso spiegare alla gente questa mia prospettiva. Penso ci siano molte cose sbagliate nel nostro business. E dobbiamo cambiarle. Non dobbiamo "musealizzare" l'opera, raccontare sempre le stesse storie. Ecco perché mi sono detto: smettila prima di diventare un vecchio uomo bianco al potere.

È stato difficile portare l'opera contemporanea a Bolzano?

Alcune cose sono iniziate proprio in piccole città come questa. Quindi non vedo la differenza fra Bolzano e Londra o New York. Si tratta invece di portare una visione...e le visioni non hanno nulla a che fare con la geografia. Senza una visione, a mio avviso, non c'è lavoro nell'opera. Oppure, l'alternativa è ragionare come se fossimo in un supermercato, offrendo qualcosa di preconfezionato. Non è più facile lavorare in una grande città. E questa non è ancora la sfida più difficile.

C'è un filo conduttore nei progetti che ha portato a Bolzano?

Sì, certamente. Ci siamo detti: se vogliamo dare dei titoli per i diversi programmi, usiamo alcune frasi che riescano a catturare l'immaginazione del pubblico. Siamo partiti con "The irony of life" (Ironia della vita), che ci ha aperto una porta. Poi ci sono stati altri titoli e suggestioni: "Love and other cruelties" (Amore e altre crudeltà). Di cosa parla l'opera? Di amore, morte, crudeltà. Abbiamo poi avuto "Angel or Demon" (Angelo o demone), e poi "Once upon a time" (C'era una volta), che portava in sé l'idea che il racconto di una storia sia una specie di rituale che permette di sperimentare al di là del tempo e dello spazio. Con il titolo dell'ultimo programma, "Nothing is written" (Niente è scritto), ho cercato invece di spiegare che ogni opera è l'inizio di qualcosa di nuovo che si ripete continuamente.

I progetti che ha gradito di più?

Ho amato molto "La Wally", una grande produzione, ma anche un lavoro molto difficile per motivi personali. Sono un grande fan dei romanzi gotici e di Edgar Allan Poe, quindi sono legato a "The Raven". Ma anche "Falcone, il tempo sospeso del volo".

Un augurio al team della Fondazione?

Prima di tutto la salute. E poi di coltivare una visione. Che vita sarebbe senza? È un valore unico: credere in qualcosa che a prima vista non sembra possibile.













Altre notizie

l’editoriale

L’Alto Adige di oggi e di domani

Il nuovo direttore del quotidiano "Alto Adige" saluta i lettori con questo intervento, oggi pubblicato in prima pagina (foto DLife)


di Mirco Marchiodi

Attualità