La paura del “doppio” e la cultura del trapasso 

Nel mondo contadino delle Alpi il rapporto con la morte e l’ oltremondo era stretto e quotidiano



BOLZANO. Una società nella quale la morte era percepita come humus della vita, la gente non pensa al momento del trapasso dalla vita alla morte se non quando quel momento arriva, e allora lo accoglie con arrendevolezza alla stregua di una legge di natura a cui tutti sono da sempre rassegnati. La docile accettazione di un evento inevitabile si è per lungo tempo accompagnata alla credenza nella sopravvivenza del doppio, ossia degli spiriti dei trapassati, testimoniato in molte storie e leggende. I nostri avi, come quelli di altre civiltà, non potevano capacitarsi della brusca scomparsa di coloro con cui avevano convissuto, e quindi credevano agli spiriti dei morti, ad una presenza dei defunti accanto a sé che durava un certo lasso di tempo. Questi doppi si aggiravano di notte e guai lasciare la biancheria stesa perché se questi la sfioravano diventava floscia e bisognava rilavarla.

In questa unità i morti e i vivi coesistevano nei ricordi, nella memoria domestica, nei sogni e in molte storie soprannaturali, soprattutto legate ai luoghi di confine tra noto e sconosciuto, tra sacro e profano. Come la Mòrrigan gaelica che si rivela sempre in un luogo di confine, in un tempo di passaggio, tra la luce del giorno e il buio della notte. Nelle antiche storie e nel folklore gaelico gli esseri dell’oltremondo entrano in contatto con gli umani in situazioni liminari, come attraverso fratture sulla superficie della realtà mondana.

Così per le genti alpine, molte volte isolate, a diretto contatto con la natura, il rapporto con la cultura della morte era stretto e quotidiano. Prima che il cimitero diventasse un luogo di monito ai vivi e abitato dagli spiriti e dalle anime perdute che appaiono sotto forma di fiammelle – le “fuc voladi” badiote –, era luogo d’incontro, di festa, punto di vendita delle derrate alimentari. Il ballo di san Vito è anch’esso una conseguenza dei balli nei cimiteri, poiché san Vito, avendo visto dei cristiani ballare in un cimitero, li aveva maledetti, condannandoli a ballare senza mai fermarsi. In val dei Mocheni si usava piantare nei cimiteri il ginepro perché si riteneva che potesse aiutare a riportare sulla terra le anime dei morti.

Il cimitero rimane il luogo dell’anima e degli affetti, lì ci si reca per ricordare, almeno una volta all’anno, i nostri morti, arredando e decorando le cappelle funerarie, le edicole funebri e le lapidi, utilizzando una simbologia antica e legata all’eternità. Ad esempio la pigna, assieme al fiore del papavero e ai granati, è simbolo d’immortalità, assai frequente nell’arte funeraria. La decorazione e l’ornamentazione delle tombe con i fiori deriva dall’antico uso romano delle rosalia – festa dedicata ai defunti e legata alla stagionalità della fioritura delle rose –, passato dal culto dei morti a quello dell’imperatore e poi acquisito dai cristiani per celebrare i loro martiri. Ma i morti non sono tutti uguali: la ricchezza di alcune tombe, o le tombe familiari, ne sono una muta testimonianza. Già sant’Agostino denunciava questa disuguaglianza scrivendo che se i cristiani volevano assicurare la salvezza dell’anima ai loro congiunti defunti dovevano preoccuparsi non della pompa dei funerali e della solennità delle sepolture, ma di non far mancare loro le preghiere.

Il recinto cimiteriale era elemento di divisione netta tra la città dei vivi e quella dei morti. A Stelvio, durante la manifestazione dei Klosen, il 5 dicembre, vigilia di S. Nicolò, gli spettatori trovano salvamento al di là del cancello del cimitero, spazio sacro che i diavoli devono rispettare. E’ la reminiscenza di un radicato uso medioevale.(fdg)















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