Lou Reed, l'ultimo re di New York



A dieci anni dalla sua scomparsa, è uscita a ottobre negli Usa – e in contemporanea in Italia, per Minimum Fax - una nuova, monumentale biografia di Lou Reed (1942-2013), curata da Will Hermes, giornalista e critico americano che ha attinto agli archivi messi a disposizione da Laurie Anderson alla New York Public Library for the Performing Arts, dopo la morte dell’artista. “Lou Reed, il re di New York” (tradotta da Chiara Veltri e Paola De Angelis) sorpassa, anche per numero di pagine, le altre pubblicazioni già sul mercato, compresa quella celebre di Victor Bockris, che dalla sua aveva il fatto di avere frequentato in prima persona la scena dell’epoca.

Hermes confessa all’inizio di non avere conosciuto Lou Reed personalmente, e questo rimane forse l’unico limite dell’opera. Che per il resto racconta in maniera esaustiva la vita dell’artista: l’ambiente familiare, gli studi alla Syracuse con Delmore Schwartz, i primi passi nella musica, l’amicizia con John Cale, l’approdo alla Factory, la corte del re della Pop Art Andy Warhol, nonché i tour, gli amori, le dipendenze da alcol e droghe e così via.

Lo spazio maggiore viene riservato agli esordi, all’era Velvet Undergound, mentre l’ultima parte della carriera di Reed è un po’ sacrificata. Pochi i “pettegolezzi”, comunque, compresi quelli relativi agli aspetti più autodistruttivi dell’esistenza del cantante e chitarrista, che in ogni caso non possono essere sottaciuti, anche perché sono parte integrante della sua opera. Ad essere inquadrata molto bene è soprattutto l’importanza che la musica dei Velvet Undeground prima e del Lou Reed solista poi hanno avuto nell’evoluzione della musica rock in generale, nonché della scena artistica sperimentale prima newyorkese e poi mondiale.

Certo, una biografia fatica a restituire in pieno l’atmosfera degli spettacoli dei Velvet, non nelle grandi arene ma nei teatri “alternativi” di Manhattan dove, dall’incontro fra il cinema di Warhol, la teatralità di Gerard Malanga e co. e il rock della band, prendeva forma quella multimedialità che oggi è pane quotidiano, ma all’epoca molto meno. Forse solo una penna altrettanto fuori dagli schemi potrebbe riuscirci. Cresciuto a Long Island in una famiglia americana piccolo borghese di origine ebraica (il nonno paterno era arrivato negli Usa da una regione a cavallo fra Russia e Polonia), Lewis Allan Reed è stato il prototipo del rocker tormentato e non-binario, come diremmo oggi, che in gioventù i genitori sottoposero ad un ciclo di elettroshock, terapia allora molto in voga per curare i disturbi della personalità, ed insieme un artista innovativo, pur nell’apparente economia di mezzi (come chitarrista non era un virtuoso).

Reed ha cantato il lato oscuro dell’esistenza, con un linguaggio sospeso fra crudo realismo e poesia, introducendo in una musica nata per far ballare i ragazzi elementi nuovi, “adulti”, ma restando quasi sempre fedele alla forma-canzone, all’eccitazione prodotta da una chitarra elettrica accoppiata a una batteria. Alto e basso, sofisticato e di largo consumo, sala da concerto e juke box: è la grande lezione della cultura pop, e in fondo dell’estetica postmoderna.

L’avventura artistica e umana del “rock ‘roll animal”, come si definì Reed in uno dei suoi album, continua ad affascinare, visto anche il lancio in grande stile di questo volumone. Chiudendolo viene spontaneo domandarsi: quale delle star della musica di oggi potrebbe essere altrettanto interessante?

 













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