Mamadou Dioume racconta il teatro 

Merano. L’attore e regista di fama internazionale è ospite di CRATere «L’arte di raccontare una storia è la conquista di una libertà interiore»


Giovanni Accardo


Merano. «Il teatro per me è un cammino di vita che permette l'apertura di se stessi, ovvero dare senza aspettarsi nulla, è un luogo in cui si condivide tutto di se stessi con gli altri: compagni di scena e spettatori, affinché qualcosa di indefinibile possa risuonare dentro coloro che ne prendono parte. Il teatro mi ha insegnato che in scena come nella vita bisogna essere generosi.» Così l’ attore, regista e formatore di fama internazionale Mamadou Dioume presenta la sua idea di teatro. Diplomato all’ Istituto Nazionale delle Arti del Senegal, nel 1968 si fa riconoscere per il ruolo di Creonte nell’ Antigone di Jean Anouilh, mentre nel 1984 interpreta Bhima nel “Mahābhārata” diretto da Peter Brook; ruolo che interpreterà sia in francese che in inglese durante la tournée mondiale durata fino al 1988. Ha inoltre diretto numerosi spettacoli nel mondo e in Italia, e preso parte in numerose produzioni cinematografiche. Dal 1991 dirige workshop e masterclass per attori in Africa e in tutta Europa per trasmettere la forza delle sue tradizioni agli allievi europei.

Mamadou Dioume è al Centro per la cultura di Merano (Via Cavour 1) fino a domani, domenica 19 per il workshop “Qui e altrove”, all’interno di CRATere - piccola rassegna di arte, teatro e umanità - diretta da Nazario Zambaldi per Teatro Pratiko. Gli abbiamo fatto qualche domanda.

Il suo è un teatro di ricerca. Da quali presupposti ha origine?

È una ricerca guidata da una necessità: avere sempre “fame” e “sete”, sapendo che ogni volta si va verso la verità altrui che è una necessità. Per farlo bisogna allontanarsi dal personale, perché stiamo raccontando qualcosa che è essenziale per tutti. Uno spettacolo teatrale, ovunque si realizza, mette in scena una storia umana. Nella mia esperienza mi sono sempre confrontato con due principi fondamentali: essenza ed esistenza. Cechov nel “Gabbiano” fa dire ad uno dei personaggi, Kostja - figlio di una grande attrice che viveva nei cliché - che non si deve illustrare e descrivere ma attingere a qualcosa di indefinibile: l’essenza.

Ci racconta la sua esperienza teatrale con Peter Brook?

Per Peter Brook l’ arte di raccontare una storia coincide con la conquista di una libertà interiore. Per fare questo bisogna che lo strumento che siamo possa entrare in risonanza con gli altri, tanto da percepire l’ essere che giace dentro di noi. Lasciar fluire i movimenti interni, senza cercare la performance, lavorando sulla semplicità e lasciandosi attraversare da essa. Con lui una persona deve raccontare qualcosa che sia semplice e dentro cui non esiste il personale; ciò vuol dire che porto qualcosa che non è la mia verità, tuttavia quella cosa lì mi nutre, mi parla, parla agli altri.

In cosa consisterà il workshop che terrà a Merano?

Ai partecipanti chiedo la disponibilità e il coraggio affinché qualcosa possa accadere. Per me non ci sono metodi, ricette, neanche formule sempre pronte. Si parte dal vuoto, come fanno gli attori giapponesi o indiani, per evitare il sentimentalismo o l'attaccamento, allontanandosi dagli schemi e dai cliché. Deve essere un lavoro di apertura, cercare di attraversare un varco, saper viaggiare. Come dico spesso agli allievi, siamo un terreno che può essere fertile o sterile.















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