PARLA PAOLO FRESU

BOLZANO. Di Paolo Fresu e della sua multiforme attività era lecito pensare che a Bolzano in questi giorni si fosse detto e scritto tutto il possibile: l’attesissimo debutto nello spettacolo teatrale...


di Fabio Zamboni


BOLZANO. Di Paolo Fresu e della sua multiforme attività era lecito pensare che a Bolzano in questi giorni si fosse detto e scritto tutto il possibile: l’attesissimo debutto nello spettacolo teatrale “Tempo di Chet” con presentazioni, interviste, recensioni varie; l’annuncio dell’uscita del disco con le musiche dello spettacolo teatrale per l’etichetta Tuk Music; l’annuncio dell’uscita del libro “Poesie jazz e cuori curiosi” (per Rizzoli) e dell’uscita imminente di un nuovo disco registrato con il coro còrso A Filetta. E invece il jazzista sardo ha regalato domenica mattina a chi ha colto il suo invito a incontrarlo un’intervista-spettacolo degna di un biglietto d’entrata. Dentro un Carambolage con un bel pubblico numeroso e attento, Fresu si è fatto stimolare dal giornalista Paolo Mazzucato arrivando a raccontare in un’ora e mezza la sua idea di musica jazz, la sua formazione di uomo e di musicista, il ritratto di Chet Baker e qualche aneddoto da applausi.

Usando il microfono con la stessa confidenza con cui maneggia la tromba, Fresu ha raccontato la sua dirompente scoperta della musica jazz dopo alcuni anni di esperienza nella banda del suo paese, Berchidda, e nelle orchestrine da ballo di metà anni Settanta: “Accadde tutto quando la mia famiglia, a bordo di una Fiat 500 famigliare si recò a Sassari per l’acquisto di un mangiacassette: con la possibilità di ascoltare la musica entrò in casa anche il jazz. E fu amore al primo ascolto, una scoperta che cambiò la mia vita”.

Illuminante la breve ma intensa “lezione” sulla musica jazz in generale: «È la musica del presente, ecco perché quelli che dicono che il jazz è morto con Coltrane non hanno capito nulla. Il jazz è uno strumento per raccontare il presente. Se c’è un abisso fra la musica di Armostrong e quella di Miles Davis è proprio per questo: perché riflettono due epoche diverse e lontane».

I migliori trombettisti della storia? «Armstrong, Gillespie, Miles Davis e Chet Baker, diversissimi e tutti dimostrazione vivente delle loro diverse personalità e delle situazioni che hanno vissuto. A me la vita me l’ha cambiata “Autumn Leaves” riletta e trasfigurata da Miles Davis. Lì ho capito qual era l’infinito grado di libertà del jazz».

Eppure Paolo Fresu era destinato alla carriera di elettrotecnico: «Mi diplomai perito col massimo dei voti, percorrendo 14 mila km in cinque anni, da Berchidda a Sassari, e frequentando contemporaneamente il Conservatorio. Mi offrirono subito un lavoro alla Sip, ma rifiutai cortesemente».

Come rifiutò di continuare il lavoro del padre. «Vengo da una umile famiglia di pastori e contadini. Ma mio padre mi disse: fa quello che vuoi ma cerca di non fare il pastore, è un lavoro duro. E per questo lo ringrazio ancora».

Paolo Mazzucato mette sul tavolo due oggetti preziosi: il cd in uscita che Fresu ha registrato con il coro A Filetta e il libro “Poesie jazz e cuori curiosi”. Legge alcuni passi, rivelando che Fresu se la cava egregiamente anche come scrittore, con preziose riflessioni su piccole e grandi cose del quotidiano, quelle che possono diventare poesia. Poi presenta il cd, dedicato a due singolari e misconosciute figure politiche della Corsica e arriva a parlare del motivo per cui sta trascorrendo due mesi in Trentino-Alto Adige: Chet Baker. «Un poeta maledetto, un enorme talento senza però la forza progettuale di altri grandi come Miles Davis. Pochi sanno che nel 1961 mentre era in carcere a Lucca, scrisse un quaderno con varie riflessioni e molte note, che diventarono poi gli unici suoi brani autografi, tre dei quali furono arrangiati nientemeno che da Ennio Morricone».

Un ultimo, curioso tema: la postura di certi trombettisti, Fresu compreso.

«Le contorsioni che faccio sul palco esprimono la concentrazione, sono funzionali alla creazione, non si tratta di movimenti studiati. La tromba è lo strumento che più è legato al corpo, ne è un’emanazione. E quindi suonarlo significa esternare quello che hai nello stomaco e nella mente, esprimendolo anche nel modo di suonare».

Il racconto finisce qui, con gli spettatori che lo applaudono in piedi e Fresu che avrebbe continuato lo splendido assolo, se solo non avesse avuto in programma, nel pomeriggio, l’ultima richiestissima replica bolzanina di “Tempo di Chet”.

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