Patrizia Cavalli, la poetessa che non ha cambiato il mondo

So’ pigra», rispondeva Patrizia Cavalli, umbra di origine (di Todi, la patria di Jacopone, uno dei grandi poeti religiosi medioevali), romana d’adozione, a chi le chiedeva perché avesse scritto così...


Marco Pontoni


So’ pigra», rispondeva Patrizia Cavalli, umbra di origine (di Todi, la patria di Jacopone, uno dei grandi poeti religiosi medioevali), romana d’adozione, a chi le chiedeva perché avesse scritto così poco nella vita.

Che poi proprio poco non è: una decina di raccolte di poesie, che fin dall’inizio, cioè da “Le mie poesie non cambieranno il mondo”, pubblicata nel 1974, ebbero un’ottima accoglienza, e poi un’opera in prosa (“Con passi giapponesi”, 2019, Premio Campiello), e varie traduzioni per il teatro.

Cavalli è scomparsa nel giugno del 2022. A lei Annalena Benini e Francesco Piccolo hanno dedicato un documentario presentato all’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia, che racconta l’ultimo tratto del cammino della poeta. In questa rubrica finora non mi ero mai occupato di poesia ma ho pensato di rimediare, partendo proprio da una scrittrice apparentemente “facile”, che utilizza un linguaggio piano, quotidiano, innestato su una metrica classica, per raccontare situazioni e moti dell’animo familiari a una vasta platea di lettori.

Ma Cavalli non era “crepuscolare”. Era attenta, ironica, molto fisica e consapevole di sé.

La sua prima raccolta era stata sostenuta nientemeno che da Elsa Morante.

Narra la leggenda che la loro frequentazione durasse già da un po’, e che Morante cominciasse a chiedersi che cosa mai avesse in serbo quella giovane, visto che non le faceva leggere niente.

Il motivo era l’insicurezza di Cavalli riguardo alla solidità dei versi che aveva già nel cassetto. Ne scrisse in gran parte di nuovi, prima di sottoporli all’autrice de “La storia” e “L’isola di Arturo”.

La quale, con suo grande sollievo, li apprezzò.

Il titolo di quella prima raccolta, poi riunita assieme a “Il cielo” (1981) e “L’io singolare proprio mio” (1992) in “Poesie (1974-1992)”, pubblicato da Einaudi, che consiglio come buon viatico per la sua poetica, era provocatorio.

I ‘70 sono gli anni in cui si pensa a cambiare il mondo. Anche la scrittura letteraria deve servire a questo. Cavalli fa un passo non indietro, ma di lato. Niente proclami né invettive nei suoi componimenti.

Gianni Raboni nell’81 la collocò “fra i migliori rappresentanti di quella poesia ‘esistenziale’ che nasce, soprattutto a Roma, dalla confluenza della lezione di Penna con quella di Pasolini…”. Sandro Penna, quindi, fra gli altri; un altro grande poeta umbro, un poeta dell’amore (omosessuale) e dei momenti sospesi, dei silenzi, della luce.

L’amore è presente anche di alcune delle poesie più famose di Cavalli.

È sensuale (“Bene, vediamo un po’ come fiorisci, come ti apri, di che colore hai i petali…) oppure assente (“Adesso che il tempo sembra tutto mio, e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena, adesso che posso rimanere a guardare come si scioglie una nuvola e come si scolora…).

Ma più spesso l’oggetto dei versi sono la vita quotidiana, il semplice tragitto dalla camera al bagno, o ancora, il farsi e disfarsi dei pensieri e delle intuizioni nate dall’autosservazione: “Io scientificamente mi domando come è stato creato il mio cervello, cosa ci faccio io con questo sbaglio. Fingo di avere anima e pensieri per circolare meglio in mezzo agli altri, qualche volta mi sembra anche di amare facce e parole di persone, rare; esser toccata vorrei poter toccare, ma scopro sempre che ogni mia emozione dipende da un vicino temporale ”.

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