Design come stile di vita: Daverio lancia la sfida

Intervista al critico d’arte a Bolzano per l’Innovation Festival: «C’è l’eccellenza italiana nonostante lo Stato. Questo Paese nega i suoi talenti, ma giovani e artisti facciano la rivoluzione»


di Riccardo Valletti


BOLZANO. Viene per parlare del design inclusivo, (oggi alle ore 16, aula magna della Lub) l'ultima frontiera della bellezza diffusa e accessibile a tutti, e porta il suo contributo di pensiero originale sulla distonia tra design e arte made in Italy, il primo in cima alle classifiche mondiali, la seconda che fatica a farsi strada sulla scena culturale internazionale, commenta alcune scelte architettoniche a urbanistiche locali. Philippe Daverio è professore universitario (Palermo e Milano) e autore e conduttore di programmi d’arte e cultura.

Professore, iniziamo da qualche anticipazione di contenuti della sua conferenza: cosa significa “inclusivo”, finora avevamo sempre associato al design il concetto di esclusività.

«L'idea è quella di partire da un concetto di design che può comprendere tutto, basata sulla convinzione che tutto può essere progettato: non si parla quindi solo della sediolina, ma di un intero lifestyle. È un po' come avviene nel passaggio dalla moda al pret-a-porter, si tratta di diffondere un modello e trasformarlo in stile di vita. Questo consente un nuovo modo di vivere la quotidianità estetica, che diventa un sentimento comune».

Democratizzare la bellezza, e renderla alla portata di tutti.

«Esatto, anche in quelle aree della quotidianità che sono rimaste ai margini del discorso estetico, come per le categorie svantaggiate, gli invalidi, condannati a concentrarsi sulla funzionalità degli oggetti. Per loro, finalmente, ci sarà attenzione anche alla bellezza. L'operazione di vero design infatti, come sostenuto anche dall'Adi, l'Associazione del design Italiano, una elite intellettuale di grande spessore, è quella che sottrae complessità senza rinunciare al contenuto tecnologico, che produce oggetti da utilizzare e non da comprendere. Le faccio un esempio: la vera rivoluzione del secolo scorso non è stato il computer, che uno deve imparare ad usare e se poi cade per terra si rompe, ma la penna Bic. Un oggetto che è il frutto di una lunghissima evoluzione che dalla penna col calamaio, si fonde con la matita, e diventa immediato e popolare, che tutti sanno usare senza avere il bisogno di capire la tecnologia che contiene. Senza l'invenzione dei cuscinetti a sfera del motore a scoppio, l'invenzione della Bic sarebbe stata impossibile, quindi l'intelligenza tecnologica è elevatissima, ma la sua comunicazione è semplicissima».

Mentre però il design fiorisce, l'arte italiana perde colpi. Lei come spiega questo fenomeno?

«Questo è il risultato di una serie di pervertimenti legato alla nostra stupida esterofilia che ci fa credere che sia arte maggiore solo quella roba che gira tra Londra e New York. Questo è un Paese feroce con le due categorie di persone di cui ha più bisogno: i giovani e gli artisti. È uno Stato cattivo, che falcia i talenti. Eppure quando ci misuriamo coi mercati la nostra creatività è la migliore, quando lasciamo alle imprese il ruolo della committenza otteniamo dei risultati straordinari; com'è possibile che se nell'arte interviene lo Stato facciamo la figura dei mentecatti, e se lasciamo fare alle imprese diventiamo geni della creatività?»

E allora qual è il problema vero in Italia?

«Il problema è l'assenza dello Stato, della committenza, delle sovrintendenze, degli enti locali. Nel mondo della cultura lo Stato non è più in grado di gestire nulla. Gli artisti sopravvivono a stento anche se straordinari, mentre altri Paesi di rifanno una verginità con piccole accortezze e sostegni. L'Italia è un Paese carogna con i suoi talenti. La colpa però non è dello Stato, che per definizione è conservatore, ma dei giovani e degli artisti che ancora non hanno fatto la rivoluzione».

Un commento su una questione locale: la demolizione di alcuni rifugi di montagna del secolo scorso per fare spazio a nuove costruzioni di concezione moderna. Cosa ne pensa?

«Il design dovrebbe sapere coniugare innovazione e tradizione all'interno della stessa opera. Non conosco bene la questione, ma è chiaro che ogni volta che si rade al suolo un edificio antico si perde qualcosa. Su questo punto mi trovo anche in contrasto con la sovrintendenza dei beni culturali, che non presta la minima attenzione alle architetture rurali quando invece spesso sono molto più importanti delle beghe delle facciate storiche nei centri cittadini. C'è anche una questione più profonda, in Italia non si dibatte più, non si approfondiscono le riflessioni, soffriamo una specie di mancanza di teoria, per cui le cose vanno bene come vengono».

Altra questione sofferta da Bolzano: la scarsità di suolo. L'urbanistica avanza sotto il paradigma del costruire sul costruito, ma non si rischia di perdere la memoria architettonica continuando a demolire per ricostruire?

«La via della razionalizzazione dello sfruttamento del suolo è segnata, non ci si può sottrarre, è impossibile continuare a cementificare altro suolo. Questo impone una scelta, demolire e ricostruire oppure metabolizzare l'esistente. Tanto per fare un esempio: quando Firenze divenne ducato si creò il problema di dare alla città un ponte dignitoso al posto di quello della macellazione, che era sporco e puzzolente; invece di demolirlo lo ripensarono e così nacque il Ponte Vecchio. A Parigi trent'anni dopo si posero la stessa questione, però il ponte venne demolito, ed oggi è solo un ponte. Questo per dire che non esiste una soluzione universale, bisogna parlarne, rifletterci, senza cadere nello schema delle chiacchiere da pollaio, e magari ascoltando chi ha le competenze necessarie».

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