L'8 settembre di Carlo Alieri, il partigiano che ha visto le SS violentare Bolzano

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Carlo Alieri ha 92 anni. È un signore mite ed elegante, come lo sanno essere solo certi siciliani. Sembra uscito da un libro di Camilleri. Per tutta la vita ha fatto il professore delle medie a Marsala. A Marsala ha una bella casa, fresca e riparata dalle palme. Ha una moglie e due figli, che fanno i professori come lui. Non alza mai la voce, parla un italiano antico, e si sente in imbarazzo anche solo a chiedere un bicchier d’acqua. Eppure oggi, 73 anni fa, ha visto il diavolo e l’inferno. «Se sono arrivato a questa età - sospira -, lo devo a Sant’Antonio e ai molti bolzanini che hanno rischiato la fucilazione per aiutarmi». La memoria corre indietro. Il suo è un racconto in presa diretta di una città bombardata e violentata dai tedeschi. Il racconto dei giovani militari italiani trascinati sui carri bestiame e braccati nei boschi. Carlo Alieri chiude gli occhi e comincia la storia. «Nel settembre del 1943 Bolzano era una città disperata. Ma anche molto generosa e capace di grande eroismo. Avevo 19 anni. Nel maggio di quell’anno venni chiamato alle armi e fui costretto a lasciare la scuola prima del diploma. La mattina dell’11 maggio 1943 eravamo tutti in stazione a Marsala. Un branco di ragazzini dai 18 ai 20 anni. Sapevamo che c’era la guerra, ma non dove ci avrebbero spediti e se saremmo tornati vivi o morti. Mio padre mi mise in mano una collanina di spago con un’immagine di Sant’Antonio. “Ti proteggerà”, mi disse, e così è stato...».

Bombe su Bolzano.
Due settimane dopo Alieri è a Bolzano, al 4° Reggimento Genio. «Era giugno, c’era una brezza calda. Mi trovavo di guardia ad un grande palazzo vicino al Duomo, con il mio fucile modello 81 e il berretto a sottogola». La sirena d’allarme strillò. La contraerea mitragliava il cielo. Le bombe caddero sulla città. «Una vicino a me: l’onda d’urto mi schiacciò sul muro. Pensai “è finita”, invece mi rialzai». Il palazzo era distrutto. La gente correva ai rifugi. «Una scena dantesca. Presi fra le mani la collanina e baciai l’immagine del Santo. Ero vivo». Dieci giorni dopo, Alieri viene trasferito a Collalbo per seguire un corso di “telegrafista”. «Dormivamo in tenda, scendevamo in città con il trenino del Renon». I giorni trascorrono monotoni, le notizie si susseguono. Gli americani sono sbarcati in Sicilia. «Ero in ansia. Temevo per la vita dei miei».

Oggi, 73 anni fa. Il 4 settembre 1943 gli viene ordinato di scendere in città a prendere le provviste per 250 uomini. «Caricammo sul trenino ogni bendiddio: mortadella, formaggi, pane, uova, carne, verdura. Il trenino si era mosso da pochi minuti, quando la sirena cominciò di nuovo a gridare». Questa volta erano gli inglesi a bombardare. Una colata di fuoco. «Uno spettacolo terribile: macerie, distruzione, morte. La stazioncina da cui eravamo partiti completamente distrutta. Bolzano era avvolta nelle fiamme, non puoi neanche immaginare cosa ho visto». Ma la guerra e la disciplina militare possono avere anche risvolti da farsa. «Mi diedero otto giorni di prigione perché nella confusione avevo perso 2 chili di formaggio. Mi indignai moltissimo». La recluta Alieri non sconterà mai la pena. Perché - come un colpo di fucile inaspettato - arriva l’8 settembre. «Al campo era tutto un vociare. Dicevano che la guerra era finita, che Mussolini era morto. Che potevamo tornare a casa». Dura poche ore. «La sera, nel buio, ci fecero ricomporre le righe, zaino in spalla e armi in pugno. Il comandante della compagnia ci disse poche parole: “La Germania non accetta l’armistizio. La guerra continua, ma contro i tedeschi. Sono già passati dal Brennero, stanno arrivando qui. Abbiamo l’ordine di fermarli”. Mi si gelò il sangue». Vengono distribuite le munizioni, le sigarette, le razioni alimentari. Le baionette innestate sul moschetto. «Nella giberna avevo 9 caricatori e 54 cartucce. Praticamente niente». La mattina dopo i tedeschi hanno già occupato Bolzano. «All’alba del 9 settembre eravamo ancora a Collalbo e non sapevamo cosa fare. Alle 10 il capitano ci disse che “ogni forza militare italiana era sciolta”. Che i tedeschi avevano bloccato la ferrovia per Bolzano e stavano salendo con i carro armati a prenderci. Disse anche con i nostri fucili non saremmo stati in grado di difenderci. L’ordine era di deporre le armi e arrendersi, ma chi voleva poteva darsi alla macchia». Ragazzi senza esperienza, pivelli, reclute fresche che a malapena sapevano tirare a un piccione. «Io decisi di scappare. Salutai il capitano e mi misi in cammino con altri quattro compagni. Attraversammo Collalbo, barattammo gli zaini e le coperte militari con abiti civili. Poi ci fu solo il buio del bosco...».

I rastrellamenti. All’alba del 10 settembre 1943, Alieri e i suoi compagni vengono circondati dai tedeschi in un fienile dove si erano rifugiati per la notte. «Urlavano e infilzavano la paglia con le baionette». Il pomeriggio vengono scortati da ausiliari della Sod (il servizio d’ordine sudtirolese) a Bolzano. «Erano ragazzini dai 12 ai 14 anni. Portavano una fascia bianca al braccio. Erano violenti e arroganti. Ci puntavano il moschetto e ci chiamavano “traditori” in italiano». Alle otto di sera arrivano alle caserme di via Druso. «Eravamo duemila prigionieri nel cortile: alpini, genieri, carristi. Un’anticamera del campo di concentramento. Continuavano ad arrivare soldati italiani scaricati come letame dai camion». Il racconto di Alieri è straordinario. Una testimonianza di cosa accadde quella notte. «Eravamo terrorizzati, smarriti, senza speranza. Nel buio crepitavano le mitragliatrici. Si sentivano le grida. Il cielo era nero, minacciava pioggia e temporali. Sono passati 70 anni, ma se ci pensi bene, non è poi così tanto tempo...».

 I  militari  italiani rastrellati dai soldati tedeschi e rinchiusi allo stadio Druso dopo l'8 settembre. Finirono nei lager

La marcia in Stazione. Nel campo circolano le voci più strane. Ma nessuno si fa illusioni: la prossima fermata è in Germania o in Polonia. «Alle 11 di mattina del 12 settembre si aprì il portone della caserma. Eravamo un’umanità dolente circondata da SS coi mitra puntati». La marcia verso la stazione è una via crucis di morte, botte e preghiere a Dio. «Un ragazzo, un bolzanino, si avvicinò alla colonna. Mi disse: “Esci, scappa, hai gli abiti civili, seguimi, ti nascondo io”. Non lo feci. Avevo paura. Vidi un tedesco che ci osservava e persi l’attimo. Il tedesco raggiunse il ragazzo, lo prese per un braccio e lo tirò dentro la colonna. Il ragazzo protestava, diceva che lui non c’entrava niente. Io continuavo a marciare. Sentivo le urla alle spalle. Poi un colpo di pistola. Non ebbi la forza di voltarmi...».
La gente di via Torino. La colonna dolente prosegue per via Torino. «La meravigliosa gente di via Torino». Alieri si ferma. «Che prezzo altissimo ha pagato per volerci aiutare». Dalle finestre e dai balconi le donne gettano soldi, pane, pacchetti di sigarette. Gridano “Viva l’Italia”, piangono, imprecano contro i tedeschi. La risposta è durissima. «Le SS cominciarono a mitragliare contro le case. I vetri andavano in frantumi, le imposte saltavano, l’intonaco cadeva in strada...». I prigionieri cercano di lasciare messaggi da inviare alle famiglie. «Ma i tedeschi li strappavano e ci puntavano la pistola alla testa. Molti di noi morirono in via Torino e lungo tutto il percorso fino alla stazione. Non dimenticherò mai i corpi dei nostri ragazzi abbandonati in strada, lasciati nel sangue, per aver cercato di afferrare un pezzo di pane». Una scarica di mitra ferisce di striscio alla gamba destra anche Alieri. «La morte ormai era dentro di noi. Era intorno a noi. Era il futuro che ci aspettava».

La brava gente di Bolzano. Alle 16 del 12 settembre 1943, la marcia dei 3 mila arriva in stazione. «Ci attendevano due colonne di soldati tedeschi in fila indiana, col mitra imbracciato». E i carri bestiame ancora chiusi. «C’erano tante donne in stazione: piangevano, ci passavano frutta, monete, sigarette. La folla aumentava: erano gli italiani di Bolzano che venivano per aiutarci. C’era chi cercava i figli e i parenti. C’erano le mamme disperate per i figli. Quest’onda di solidarietà, pianto, commozione non si fermava, continuava a crescere, e i tedeschi facevano fatica a tenerla». Quando i tedeschi aprono i vagoni, l’«onda» monta ancora, preme, quasi li travolge. «Le nostre mani cercavano quelle delle donne. Ci passavano doni, acqua, pane, mele. Noi davamo loro i biglietti per i nostri genitori». I tedeschi reagiscono. Spingono i soldati sui treni, cacciano la gente fuori dalla stazione. «In quel momento di grande confusione, grazie ai miei abiti civili sono riuscito a passare dall’altra parte, e in un lampo mi sono ritrovato fuori dalla stazione».

La ragazza delle Magistrali. Alieri è libero, ma non sa cosa fare. «Mi venne incontro una ragazza...». È la segretaria delle Magistrali, dove Alieri ha sostenuto gli esami di maturità da privatista. «Mi disse di seguirla “a una distanza di 30 passi” (chi proteggeva un fuggiasco veniva fucilato seduta stante, ndr). Mi portò al comando della polizia italiana. Parlò fitto con ufficiale, mi disse di star tranquillo, e se ne andò». Senza saperlo, Alieri entra nella rete di protezione clandestina che fa capo al Comitato di Liberazione Nazionale. «Dopo alcuni minuti arrivò un signore, un operaio della Lancia. Mi disse di seguirlo, sempre “a 30 passi di distanza”...».
L’operaio è Guerrino Zumerle, partigiano genovese trapiantato a Bolzano. «Mi trovò un letto nella baracche della Lancia e un lavoro in una fabbrica. Mi diede una tessera annonaria e una tessera della mutua con un nome falso. Avevo una nuova identità». Anche Alieri entra nella resistenza. Nome di battaglia “Ottobre”. Deve tenere i collegamenti con le sedi del Cln di Torino e Genova. Un compito rischioso. Se lo scoprono, è morto. «Ricordo un giorno.... i tedeschi fecero partire l’allarme dell’antiaerea solo per far uscire la gente dai cinema, e andare a caccia di soldati italiani. I tedeschi erano sempre ubriachi, sparavano in strada, picchiavano e importunavano le donne...».

Viva l'America. Sono mesi difficili. L’inverno del ’44 è durissimo. Gli americani sganciano bombe a ripetizione. «Tanti morti». Poi finalmente arriva la primavera del 1945. «Il 2 maggio ho visto gli americani entrare a Oltrisarco. In via Claudia Augusta c’erano migliaia di persone. I bambini salivano sulle jeep. La gente abbracciava i soldati. Gridava “viva la pace”, “viva la libertà”, “viva l’America”... C’erano tricolori dappertutto. Quel giorno andai nella cappella del cimitero: tirai fuori la collanina di spago. Ringraziai Sant’Antonio e tutti i bolzanini che mi avevano salvato. Era finita».
Oggi Carlo Alieri è il presidente dell’Anpi di Marsala, ed è l’unico partigiano della città ancora in vita.













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