L'ultima preziosa lezione di Tina Anselmi



La politica italiana, per un istante, è tornata unita. E ha finalmente parlato la stessa lingua. Non per il terremoto, per il referendum, per varare leggi fondamentali o per nuove emergenze. No. La politica ieri ha ritrovato l’unanimità per ricordare Tina Anselmi, garbata e insieme coriacea protagonista di un’Italia che sembra lontanissima, ma senza la quale non ci sarebbe il Paese di oggi.
Prima donna ministra nel 1976 (e se oggi questa parola si declina al femminile è grazie a donne come lei), giovane partigiana (“Gabriella”), fiera cattolica antifascista, insegnante, sindacalista (prima nella Cgil e poi, dopo esserne stata tra i fondatori, nella Cisl), inflessibile guida di una commissione parlamentare d’inchiesta - quella sullo scandalo P2 - che non aveva solo il compito di indagare e di capire, ma anche quello di ridare credibilità e moralità a un’Italia che in poche ore perse gran parte della propria innocenza. Per ricordare Tina Anselmi, si devono usare parole insieme desuete e piene di significato: dirittura morale; rettitudine; rigore; coerenza; intransigenza. Stava in prima fila per autorevolezza, non per autorità. In una Democrazia cristiana che tendeva ad azzannare chi alzava la cresta, riuscì sempre ad avere un suo spazio. Senza mai negare le sue origini fieramente popolari (il padre lavorava in farmacia, la mamma gestiva con la nonna un’osteria), scelse da che parte stare già nel lontano 1944, quando un gruppo di nazifascisti costrinse lei e altri studenti ad assistere all’impiccagione di 31 prigionieri. Scelse la giustizia e l’emancipazione e fu fra le costruttrici di quest’Italia libera e bella che le deve molto più di quanto si possa immaginare.













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