La morte di Cesare e quelle vite deragliate che non vediamo



Cesare Murroni

Cesare Murroni


Quattro morti sull’uscio di casa. Hans “Cassonetto” bruciato dal fuoco che aveva acceso per scaldarsi la notte del Natale 2013 in piazza del Grano. Elisabeth Fischnaller divorata dai suoi demoni sotto le arcate di Ponte Talvera. Jaroslav Kohl ammazzato di botte dietro Palazzo Widmann qualche settimana fa. E ieri, Cesare ucciso dalla malattia e dal freddo sotto una pila di cartoni accanto all’Hotel Alpi.

Morti sotto le nostre finestre, i nostri uffici, lungo le strade che percorriamo tutti i giorni.
Tutti e quattro in un raggio di quattrocento metri che fa perno su piazza Walther.
Vicino ai caffè, ai ristoranti, al Museion, al Teatro. Non li vediamo, non li sentiamo. Di loro non sappiamo niente. Così lontani, e così vicini. Ci inciampiamo solo quando muoiono.
E allora magari ci fermiamo un attimo per mettere una candela e conoscere la storia.
Hans che aveva rifiutato gli agi di una ricca eredità e si infilava nei bidoni dell’immondizia... Elisabeth ostaggio degli orchi sin da bambina... Jaroslav il campione di scacchi che aveva sfidato Karpov... Cesare che aveva perso tutto dopo una vita in fabbrica... E scopriamo che “loro” siamo in fondo “noi”. Colpiscono queste morti solitarie di clochard “estremi”. Non sono profughi o immigrati economici. Sono “nostri”. Ai margini per scelta. Vite deragliate chissà quando. Mimetizzate tra i cartoni e l’immondizia. Rifiutano ogni appiglio per salvarsi dalla strada. Rifiutano, la notte, di andare nei dormitori. Rifiutano il caldo e la sicurezza. Non hanno più amici, né famiglia. Sfuggono agli assistenti sociali. Non chiedono neanche l’elemosina, al massimo una sigaretta o un cartone di vino. Si rintanano sotto i ponti, nelle case abbandonate, nei garage, lungo gli argini dei fiumi, sulle panchine del parco Stazione. Esposti all’alcol, agli abusi, al freddo, alla violenza.
Ma lontano dalle regole spietate di una società che non accetta e non capisce i perdenti, gli infelici e gli sconfitti. C’è chi combatte per salire in cima e chi per cambiarla, la società. E chi alza le mani e si mette da parte. Mi arrendo, non ce la faccio, fate senza di me. “Sparire”, oltre che una scelta (disperata), è anche un diritto.
Eppure rimane questo sapore brutto in bocca. Per queste vite spezzate che siamo incapaci di vedere, intercettare, capire, salvare.













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