È la fine di un’epoca: la macelleria Stefani chiude dopo 45 anni

Il regno degli insaccati d’autore e della selvaggina locale Un esempio dell’elevato valore sociale dei negozi di vicinato


di Davide Pasquali


BOLZANO. Appena entri, trovi una panchina. A ben vedere è il segno distintivo del negozio, ben oltre la fenomenale esposizione di qualunque tipo di carne, allevata e selvatica, semipreparata e non. Sulla panchina ci si siede, per attendere di essere serviti. Ma ci si accomoda anche e soprattutto per fare due chiacchiere. Il tutto, da decenni. Stiamo parlando della macelleria Stefani di via Resia. Aperta nel 1971, chiuderà martedì. Per sempre. E l’intera via Resia e dintorni, se ci è concessa l’esagerazione culinaria, è in lutto. Giancarlo e Antonia Stefani, suonata la campanella dei 70 anni, hanno detto stop. Lui, si dedicherà alle passioni di una vita: caccia, pesca, campagna e casa in Valsugana. Lei, al nipotino.

Tutto tranne che una microstoria. La sintetizza un unico concetto, espresso dal titolare: «Quando abbiamo aperto, in città c’erano 120 macellerie. Oggi, tolte quelle degli immigrati, ne sono rimaste 7-8». E noi aggiungiamo: è la penultima macelleria italiana della città a chiudere.

Altri tempi. Giancarlo inizia a lavorare nel 1962, nella macelleria del fratello, in via Duca d’Aosta. Nel 1964 conosce la moglie, si sposano nel 1970, l’anno dopo decidono di trasferirsi nei rioni popolari. Altri tempi. Siamo in zona Semirurali, famiglie numerose, comprano chili e chili di carne. Niente supermercati, vegetariani nemmanco l’ombra. Le massaie cercano carne genuina e la sanno cucinare. Si spenderà magari un po’ di più, ma ne vale la pena. E Stefani dà un ulteriore qualcosa in più: si prepara tutto nel retrobottega, ci si affida il meno possibile a terzi. Si cercano le bestie migliori nelle valli. «Non serve la Chianina, in Alto Adige i contadini hanno carne ottima». Unica importazione da fuori provincia, il cinghiale.

Ora non ci son santi: gli Stefani non vogliono farsi fotografare. Troppa poca carne esposta, in questi ultimi giorni di apertura. Una tristezza, dicono. E un grande dispiacere, perché i clienti ne soffriranno. E di certo. Non è retorica, facciamo solo un esempio, leggendo un cartello esposto: polpa asino, lepre pulita, coscia cervo, fagiano pulito, polpa cinghiale, coscia capriolo, piccioni. Dài, adesso dove andremo a comprarli? Dove troveremo chi lavora fino alle 4 di notte, a Natale, per preparare gli zamponi artigianali per tutti?

Entra una ottuagenaria e a Stefani fa la battuta, che ripete probabilmente da 45 anni: lei ha fegato? E lui, come sempre da 45 anni, risponde: io sì, che ho del fegato. Segue la risata rituale, sempre la medesima, da anni. Che a tanti questo negozio mancherà, lo testimonia - rispetto parlando - una vecchietto; entra in ciabatte, un poco spettinato, sciupato, probabilmente vedovo. Lo salutano con calore, chiamandolo per nome. E ci pare vada così: anche se forse non se lo potrebbe permettere, gli tagliano tre fettine di carne rossa sopraffina, facendogliela pagare il minimo sindacale. È l’altissima valenza sociale della macelleria. Forse in Comune, in Provincia, a Roma, dovrebbero aiutarle, queste strutture sociosanitarie più che commerciali. Spingendo un po’ di meno per i centri commerciali, un po’ di più per l’alta qualità artigianale. E per la gente.

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