È morto Mattia Fiori era in coma da 7 anni

A 24 anni un antibiotico gli aveva provocato uno shock anafilattico Il padre Renato: «Era un calvario: continuare a vivere così non aveva senso»


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «Sai come me lo immagino? Lassù, con Simo (Simone Cestaro, morto in un incidente stradale nel 2004 tra via Lancia e via Siemens, ndr), il suo amico del cuore, che fanno casino. Dopo sette anni da incubo, Mattia adesso è finalmente libero da flebo, cannule, farmaci». Francesca Fiori ha appena lasciato il Centro lungodegenti Firmian, dove poco dopo le sette di lunedì sera è successo quello che tante volte lei, sua mamma Dilva e suo papà Renato hanno temuto e sperato: Mattia, suo fratello, se n’è andato a 31 anni, di cui gli ultimi sette passati in quella sorta di limbo dove stanno coloro che sono sospesi tra la vita e la morte. Il suo cuore ha cessato di battere l’altra sera, ma la vita, quella vera di Mattia, era finita alle 12.50 del primo marzo del 2007. La sua storia, banale e tragica, aveva commosso i bolzanini che a lungo hanno fatto il tifo per quel ragazzone, appassionato di calcio e tifoso dell’Inter.

La prima vita. Sette anni fa lavorava nel negozio di scarpe Twenty di via Leonardo da Vinci ed era in malattia da qualche giorno. Nulla di grave: per guarire da una fastidiosa cistite il medico gli aveva prescritto un antibiotico. Sarebbe tornato a lavorare nel giro di pochi giorni. La sfortuna però ha voluto che quel maledetto giovedì fosse solo nell’appartamento di viale Trieste: la mamma era andata a Modena a trovare sua sorella; l’amico Mirko, invitato per pranzare assieme, era arrivato troppo tardi. Mattia, dopo aver assunto il farmaco, si era sentito male a causa di uno shock anafilattico. Aveva avuto solo il tempo di chiamare il 118, poi era svenuto. I soccorritori si erano trovati davanti ad una porta sbarrata. È così che si erano persi minuti preziosi: era stato rianimato, il cuore era tornato a battere, ma il cervello si era spento per sempre. Coma vegetativo: la sentenza dei medici. Aveva 24 anni.

«Da allora - dice la sorella Francesca - sono passati sette anni caratterizzati all’inizio da tanta rabbia, perché non puoi accettare che finisca così; ma anche da tanta speranza: non vuoi arrenderti all’idea che non ci sia nulla da fare».

Mentre mamma Dilva non si staccava dalla stanza dove era ricoverato il “suo bambino”, Francesca e Renato, suo padre, avevano cominciato a bussare a tutte le porte, a cercare in internet qualcuno che fosse in grado di dare una risposta al loro dramma . Nonostante gli accertamenti ai quali Mattia era stato sottoposto a Bolzano non lasciassero alcuno spazio alla speranza, avevano ottenuto di portarlo in Germania, in un centro specializzato nei “risvegli”. Ci era rimasto alcune settimane e gli amici si organizzavano per andarlo a trovare: nel weekend macinavano centinaia di chilometri per stargli vicino. Nulla da fare. Il miracolo non era avvenuto e Mattia era tornato a Bolzano.

Speranze finite. I genitori avrebbero voluto riportalo a casa, ma alla fine si erano dovuti arrendere: impossibile assistere a domicilio un paziente in coma vigile. È così che il centro lungodegenti di Firmian era diventato la sua nuova casa. Nella cameretta i genitori avevano ricostruito l'ambiente familiare: c’erano le foto di Mattia al mare, bello, abbronzato, pieno di vita. C'era il poster di Ibrahimovic, l’ex fuoriclasse dell'Inter, la sua squadra. C’erano i manifesti delle feste, dei tornei, delle serate organizzate dall’associazione “Forza Mattia” per raccogliere fondi per aiutare altre persone in difficoltà. Pezzetti di normalità per portare un po'di vita in quella stanza troppo asettica.

«Quando - racconta la sorella - abbiamo capito che bisognava accettare la realtà, abbiamo smesso di inseguire la speranza di un risveglio impossibile e abbiamo fatto di tutto, assieme agli operatori del Centro di Firmian, perché mio fratello potesse vivere con dignità gli anni o più realisticamente i mesi che gli rimanevano».

La nuova casa. Da sette anni Renato e Dilva vivevano praticamente a Firmian. Il padre arrivava verso le 8.30 e ci rimaneva fino alle 11. La mamma passava tutto il pomeriggio in quel centro costruito in mezzo ai meleti che si estendono verso Frangarto. Francesca, appena aveva un attimo di tempo, era lì. «Gli parlo - diceva il padre - accendo la musica, gli racconto come vanno le cose, poi mi occupo di lui. Aiuto gli assistenti a metterlo sulla sedia a rotelle, gli prendo la mano, lo accarezzo. Se è agitato perché ha la febbre, cerco di tranquillizzarlo. Se sta bene lo mettiamo su una bici assistita che pedala da sola».

Da alcune settimane il quadro era peggiorato: l’ennesima infezione stava mettendo a dura prova il fisico di Mattia. Stavolta non ce l’ha fatta.

Ieri il padre si consolava pensando che “come tutti i ragazzi Mattia amava Vasco... sapete quella canzone che dice "Voglio trovare un senso a questa vita. Anche se questa vita un senso non ce l'ha ..." ecco per lui non aveva più alcun senso continuare così».

©RIPRODUZIONE RISERVATA













Altre notizie

Attualità