La storia

Addio a Nino Rubbo, tra gli ultimi testimoni dei lager nazisti 

Aveva 99 anni: fu catturato in Grecia dopo l’8 settembre, venne internato in un campo in Boemia. «Eravamo in 3.600, dopo poche settimane eravamo sopravvissuti in 920. I compagni morivano di fame, percosse, malattie e sotto i bombardamenti degli alleati. Un inferno» 



BOLZANO. «Ancora oggi dormo senza cuscino, perché così facevo là». “Là” era il campo di concentramento di Brüx-Most in Boemia, dove i tedeschi lo avevano deportato dopo l’8 settembre 1943. Giovanni “Nino” Rubbo si è spento il giorno di Natale a 99 anni. Fino a quando le forze glielo hanno permesso non ha mai smesso di ricordare e testimoniare.

Catturato in Grecia, a 21 anni, sopravvisse al lager. Tornò a Bolzano, con la convinzione che anche all’inferno c’erano i buoni e i feroci. «Ho incontrato guardiani spietati e brava gente. Non dimentico che molti di noi sono morti per i bombardamenti alleati sui campi; che nella nostra terra tanti sono stati denunciati dai parenti o dai vicini». Ancora pochi anni fa in occasione della Giornata della Memoria incontrava i giovani del Centro Villa delle Rose, proprio lì nei pressi del muro del campo di via Resia. Li abbracciava tutti e raccontava.

«Ricordo come fosse ieri, il primo giorno che sono arrivato nel Lager. Mi ero preso la malaria ed i miei compagni mi hanno lavato con l’acqua fredda perché non c’era niente di meglio. Facevo il traduttore e ho salvato molte persone mandandole nei campi di patate anziché in fabbrica. In questo modo riuscivano a mangiare qualcosa, si faceva di tutto per non darci per vinti».

Il diario

Una decina di anni fa aveva affidato il suo diario al nipote Stefano Tonini, che ne fece la tesina per l’esame di maturità, raccogliendo così una testimonianza diventata oggi preziosissima. Titolo, e non poteva essere altrimenti, “Ti racconto il lager”. Giovanni “Nino” Rubbo, infatti, tenne un diario durante la sua deportazione in un lager della Boemia dopo essere stato al fronte con migliaia di compagni militari italiani.

«Mio nonno Nino - spiegò il nipote - conobbe la brutalità degli aguzzini nazisti e la precarietà della vita nel lager, minacciata da fame e malattie, ma caratterizzata anche da episodi di vera e propria resistenza morale alla violenza dei capi. Per me è stata una lezione viva di storia e un’opportunità unica di immedesimazione». A parlare, quindi, è la penna di Rubbo che attraversa un’odissea cominciata nella caserma Bormida di Torino il 5 gennaio 1942 e terminata a Bolzano il 22 luglio 1945.

«Scrivo seduto al tavolo e vedo che ho dimenticato molte cose, ma quello che è stato duro e aspro è rimasto nel più profondo del cuore». L’inferno è nella regione carbonifera del Brüx/Most, 60 chilometri a nord di Praga, prigionieri di guerra in un campo di lavoro alle dipendenze bestiali della vicina fabbrica di benzina sintetica. «Viaggiammo in carri bestiame pigiati come sardine: 40-50 per vagone. Per fame, ad ogni stazione, vendiamo alla popolazione locale gli indumenti meno necessari in cambio di pane, galline e generi vari».

Poi l’arrivo a Brüx: campo 22, quello degli italiani, matricola Stalag IV C 10495.

«Eravamo 3400 in 10 baracche - ricordava Rubbo - : si lavorava duro nello scaricare incessantemente carbone per una fabbrica dal nome sinistro: Aschenkippe. Le guardie perdono presto il senso di umanità ed io lavoravo anche come interprete per un sergente. Oltre al lavoro fisico dovevo sforzarmi mentalmente nel ricordare parole ormai abbandonate».

Due i comandanti del campo: «Uno biondo, dal lato umano, partito volontario per il fronte russo, forse per non farci da carceriere. Il secondo brutale, non esitava con i suoi aguzzini a prenderci a bastonate».

Fame e malattie si diffondono e i primi bollettini recitano cifre impietose. «Dei 3400 che eravamo siamo rimasti dopo poche settimane in 920. Il campo 22 è stato evacuato per trasferirci al 27B, occupato dagli inglesi, che prima contava 65 morti e 500 affetti da tisi».

Bombe “alleate”

Il 21 luglio 1944 gli aerei alleati rombano nel cielo e piovono bombe. «Una esplode a 10 metri dal rifugio aprendo le assi e coprendoci di sassi e terra. Un’altra piomba davanti a me e lo spostamento d’aria mi sbatte per terra. Così corro verso il recinto abbattuto, lo scavalco scorticandomi mani e gambe e aiuto il sergente per cui lavoravo. In un secondo momento, in un rifugio crollato, troviamo 22 nostri compagni morti: gambe e teste, corpi maciullati».

Rubbo sopravvive. L’8 maggio 1945 comincia il rientro a casa in scaglioni e, dopo la quarantena di prassi a Innsbruck, anche torna finalmente nella sua Bolzano.

«Scrivere in certi momenti - raccontava - è essenziale per tenerti attaccato alla realtà, per vivere la propria identità, le proprie speranze e gli affetti, per sentirti ancora un uomo e non un animale braccato».

Circa 650 mila soldati italiani, dall’8 settembre 1943 vennero trascinati dai nazisti nel lager del Terzo Reich: rifiutarono il fascismo e il nazismo che li avevano portati alla guerra, dando nei fatti un enorme contributo al radicamento della Resistenza in tutta Italia. Una storia muta per molto tempo di cui la storiografia ufficiale si occupa solo da un paio di decenni. Merito dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, che, in collaborazione con l’Anei, l’Associazione nazionale degli ex-internati, ha compiuto un importantissimo lavoro di ricerca per tentare di mettere a fuoco il fenomeno anche in provincia di Bolzano. È la dolorosa vicenda degli «I.m.i.», gelida sigla che sta ad indicare appunto gli internati militari italiani in Germania nel biennio 1943-1945, costretti al lavoro coatto, trattati come bestie. Senza nessuna delle garanzie previste per i prigionieri di guerra perché il loro status giuridico incerto, in qualità di ex-alleati, li poneva in un limbo che spianava la strada a ogni possibile barbarie, fuori persino dal controllo della Croce Rossa.













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