L'INTERVISTA

«Avevo perso la memoria. L'ho ritrovata grazie a mia moglie» 

Franco Bragagna, inviato della Rai, voce dell’atletica e di tanti altri sport, ricorda le conseguenze della caduta dalle scale nel ’91. E parla del rapporto con i campioni: «Da Schwazer mi sono sentito tradito»


Antonella Mattioli


BOLZANO. «Ero nella sede Rai di piazza Mazzini e un attimo dopo mi sono ritrovato al Pronto soccorso. Davanti a me l’infermiera - che conoscevo ma che per me in quel momento era diventata una perfetta sconosciuta - mi spiegava che avevo una moglie e anche un figlio. Ascoltavo, ma facevo fatica a capire. Quella brutta caduta dalle scale, tra il quarto e il terzo piano del palazzo, aveva all’improvviso cancellato gran parte della mia memoria». Così Franco Bragagna - 63 anni, bolzanino, quattro figli, inviato, radio e telecronista della Rai, voce dell’atletica e di tanti altri sport - racconta quella notte del 5 gennaio 1991 che lo ha catapultato indietro nel tempo, facendo tabula rasa di una parte della sua vita. All’improvviso, il giornalista dalla memoria di ferro, apprezzato dagli amanti delle diverse discipline per la capacità di snocciolare in diretta classifiche, tempi, record, aneddoti, passando dal presente al passato, non ricordava neppure la sua di storia.

All’epoca avevi 31 anni, ma era come se ne avessi...

Era come se fossi tornato indietro nel tempo. Mi sentivo un ragazzo e pensavo che da grande volevo fare il giornalista. Quella notte arrivò in ospedale Ezio Zermiani, mio collega, che era in saletta di montaggio quando ho avuto l’incidente.

E Zermiani lo avevi riconosciuto?

Sì, ma in quanto inviato della Rai che, da ragazzo, vedevo come punto di riferimento. Non come mio collega con il quale avevo scambiato quattro battute solo qualche ora prima.

L’incontro come è stato?

Io gli davo del lei; parlavo in italiano, mentre tra di noi usavamo sempre il dialetto veneto. Ed Ezio che non capiva, ad un certo punto mi disse: “Franco, mi stai prendendo in giro?” L’infermiera gli spiegò - usando un eufemismo - che ero un po’ confuso.

Come hai ricostruito il tuo passato?

Mi ha aiutato soprattutto Gabriella, mia moglie, che è stata una santa. E poi sono stati importanti i tanti chilometri macinati in macchina, nel corso degli anni, per seguire i diversi eventi. A me piace guidare soprattutto la notte: il buio, unito alla musica, mi rilassa. Questo mix mi ha consentito di conoscermi.

Sei riuscito a rimettere assieme tutte le tessere del puzzle?

Ho ancora dei buchi intorno agli anni Ottanta.

Segui da sempre lo sport: cosa rappresenta per te?

È una sorta di malattia che ho praticamente da sempre.

Lo sport che ti dà più soddisfazioni?

L’atletica che è tante cose assieme e bisogna essere bravi ad interpretarla. Però mi piacciono anche gli sport meno popolari come badminton, hockey su prato, tiro con l’arco.

La gara che non dimenticherai mai?

Primo agosto 2021, Olimpiadi di Tokyo: l’Italia che non era mai riuscita a portare in finale neanche un atleta, vince i 100 metri con Marcell Jacobs e, pochi minuti dopo, un altro oro con Gianmarco Tamberi nel salto in alto. E poi ancora un altro oro nella staffetta 4x100. Indimenticabile.

Come il tuo grido, “Marcello”, entrato nelle case di tutti gli italiani: era per sottolineare l’italianità del campione?

No. In quel momento, mentre tagliava il traguardo, ho pensato alla fontana di Trevi e a Marcello Mastroianni ne “La dolce vita”.

Più difficile la radio o la televisione?

La radio, sicuramente. Devi raccontare tutto; devi essere l’occhio di chi è in ascolto che ovviamente non ha la possibilità di vedere.

Tu hai iniziato alla radio.

Sì, a radio Quarta dimensione. Ho cominciato con delle gare di atletica. Gareggiavo per la Sab ed ero un appassionato: sapevo tutti i risultati anche dei miei amici che se li dimenticavano il giorno dopo.

La prima volta?

Ho sostituito un mio amico che dove doveva partire per il Car. Quando mi presentai in radio, mi guardarono un po’ così: avevo 16 anni ma ne dimostravo 8. Dovevo commentare una gara di atletica per 2-3 minuti, ho parlato per 50. Poi sono arrivate le partite di hockey. Parliamo degli anni Settanta quando non si sapeva neppure cosa fossero i cellulari.

Quindi come si faceva?

Si partiva con un grosso sacchetto di gettoni in tasca e ci si infilava in qualche cabina telefonica. La mia prima radiocronaca fu per Gardena-Bolzano al palaghiaccio di Ortisei. Era il 1975 e il Gardena vietava la radiocronaca integrale. Ma noi siamo riusciti a farla comunque.

In che modo?

Mi avevano munito di trasmettitore e mi ero infilato in mezzo alla tifoseria degli ultrà del Bolzano. Sono riuscito a fare tutta la radiocronaca senza essere visto.

C’è un atleta che ti piace o ti sia piaciuto particolarmente?

Usain Bolt. Il leggendario sprinter giamaicano.

Amicizie con gli atleti di cui narri le imprese?

Una in particolare.

A chi ti riferisci?

Ad Alex Schwazer. L’ho visto iniziare, da ragazzino. Poi però, mi sono sentito tradito da lui. Non ho mai creduto alla teoria del complotto.

Tu sei famoso ma non sei sui social.

Li uso lo stretto necessario, ma non sono un appassionato. Anche se su facebook hanno costituito il gruppo Franco Bragagna fan club. Capita che siano i miei figli, a volte, a dirmi cosa è stato pubblicato.

Però sui social ormai si pubblicano anche informazioni che chi fa questo mestiere non può non avere.

Infatti le ho. Ci arrivo comunque, ma in un altro modo. Nel corso degli anni ho costruito una serie di rapporti e questi valgono più di tutto.

Ti consideri una persona fortunata?

A guardare la data di nascita si direbbe di no.

Perché, quando sei nato?

Venerdì 17 alle 12.50, ma l’orario è stato arrotondato alle 13. Peggio di così...

E invece ti reputi fortunato.

Direi di sì. Di brutto c’è che ho perso mio padre che avevo solo 15 anni. Ho dovuto cominciare a lavorare presto.

A 15 anni?

Sì. La mattina andavo a scuola; il pomeriggio ero in ufficio all’assicurazione Zurigo.

E cosa facevi?

Raccoglievo le denunce dei sinistri. Con il tedesco me la cavavo già bene; ma quell’esperienza mi ha consentito anche di affinare la conoscenza del dialetto. Indispensabile, se vivi in Alto Adige.

Consiglieresti ad un giovane di intraprendere la carriera giornalistica?

Sì, ma l’accesso resta molto complicato.

 













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