«Ci salvammo perché Armando si lanciò nel vuoto»

bolzano. Il periodo di leva militare l'ho trascorso da "imboscato" d'ufficio dal novembre '58 all'aprile del '60. Una sola volta ho partecipato, per curiosità, ad una marcia notturna. In montagna...


Romano Lughezzani


bolzano. Il periodo di leva militare l'ho trascorso da "imboscato" d'ufficio dal novembre '58 all'aprile del '60. Una sola volta ho partecipato, per curiosità, ad una marcia notturna. In montagna andavo per conto mio usufruendo dei permessi del sabato sera abbinati a quelli domenicali e così le settimane passavano veloci come se si trattasse di passare un giorno a casa o meglio in montagna - ed un giorno in caserma.

La via Vinatzer, in tre

Anche quella domenica del 9 agosto - ricorreva proprio il mio onomastico - assieme all'amico Armando Costa presi il pullman del CAI che portava i gitanti a Passo Gardena. Noi avevamo intenzione di ripetere la bella via Vinatzer sul Sass della Luesa, una parete strapiombante di quattrocento metri, già scalata l'anno prima e che prevedeva difficoltà continuative di 5° e 6° grado; ci accompagnava una brava scalatrice di Mezzolombardo, Fedora Donati. Attaccammo la parete verso le 10 e superammo i primi 300 metri senza particolari problemi anche se una cordata da tre procede logicamente più lenta.

Stanchezza e grandine

Dal mini terrazzino dove ero autoassicurato con un cuneo di legno, davo corda man mano che Armando procedeva su un delicato tratto con roccia friabile e in quel momento bagnata dalla pioggia che ben presto si trasformò in gelida grandine mista a nevischio. Indugiò forse troppo sul passaggio chiave, sia per il freddo alle mani che per la stanchezza, tanto che dovette mollar la presa, avvertendomi.

Quaranta metri di volo

Ebbe però l'accortezza di saltare nel vuoto evitando eventuali spuntoni di roccia, ma il chiodo di sicurezza posto cinque metri sotto di lui si sfilò; così percorse prima i venti metri che ci dividevano e poi proseguì il volo per altrettanti metri sotto di me. Quando me lo son visto passare davanti - avevo vicino la Donati - ho pensato: "È la fine, ci sfracelleremo tutti sui ghiaioni trecento metri più in basso!" e tenni stretta la corda. Fortunatamente è andata bene, e posso raccontare l'avventura! Il traballante cuneo al quale ero ancorato infatti ha retto bene e la corda con la quale facevo sicurezza era sulla spalla giusta, cosicché lo strappo violento anziché buttarmi in fuori mi ha spinto verso la parete facendomi escoriare solo il dorso di una mano e un po' la faccia.

Costole rotte

Armando nel brusco contraccolpo nel vuoto si è insaccato un paio di costole, poi rientrando verso la strapiombante parete si è fratturato un polso (l'orologio, caduto sul ghiaione, era fermo sulle 16.30) procurandosi contusioni in varie parti del corpo. Constatato che l'amico Armando non era grave - ci si sentiva senza vederci - e dopo aver messo un chiodo di sicurezza vicino al cuneo, lo calai di alcuni metri più in basso perché si sistemasse su una specie di terrazzino spiovente. Invocammo soccorso, segnalando la nostra presenza sventolando anche la mantellina blu. Più tardi vedemmo ripartire dal passo Gardena il nostro pullman: avevamo perso l'autobus ma non la vita!

La tesi di laurea dei Catores

Fu ben presto avvertita una squadra di soccorso dei Catores, già allora ben guidata dal povero Ludwig Moroder; portarono quattro bobine con un cavo da 100 metri ciascuna lungo il sentiero della Val Setus che porta in vetta, nei pressi del rifugio Pisciadù, dove il gestore Germano Costa si prodigava per i collegamenti. Visto che imbruniva e che io ed Armando eravamo feriti alle mani e non in grado di arrampicare, dall'alto i soccorritori recuperarono, calando dall’alto una corda, solo la Donati, che cosi poté trascorrere la notte al rifugio, mentre noi potevamo attendere il recupero la mattina successiva.

Che notte di San Lorenzo

Fu per me, penso anche per Armando, una notte lunga quella di S. Lorenzo con la vista di tante stelle cadenti, passata veramente in piedi su un terrazzino dove ci stavo appena; dovevo pensare a tante cose per rimanere sveglio. Non avevo freddo anche se ero in camicia di lana- il maglione era nello zaino al Rif. Pederiva di Passo Gardena- e i pantaloni lacerati. Al mattino seguente Franz Runggaldier (poi capo dei Catores dal '71 all'82) si calò con il cavo fino ad Armando e imbragandolo se lo caricò sulla schiena per proseguire la calata fino ai ghiaioni. Più tardi fu Edi Stuflesser a recuperare me: si scendeva lisci senza toccare la parete, tanto era strapiombante. Ancor oggi sono loro riconoscente. Alla base della parete non ci vedemmo, poiché Armando era già proseguito per l'ospedale e per me era giunta un'autoambulanza militare da Brunico con l'allora capitano Giuseppe Baldessari (fu compagno di cordata di Cesare Maestri, ora è generale in pensione). Dopo avermi medicato, mi portarono a Brunico, da dove proseguii in treno fino a Bolzano; là in caserma mi aspettava la punizione: quindici giorni di consegna, che non passai in cella di rigore per aver marcato visita, ma che scontai al termine dei diciotto mesi di leva e il trasferimento dal PA (Palazzo Alti Comandi di Bolzano) ad altro reparto. Comunque prima di trasferirmi a Vipiteno, rientrando così alla mia compagnia, volle vedermi il Comandante del IV Corpo d'Armata generale Bruno Gallarotti - un piccolo grande uomo - il quale mentre con una mano mi tirò le orecchie con l'altra si complimentò. Ricordo che il resoconto sull'Alto Adige lo fece il giornalista Gianni Bianco, compagno di camerata alla caserma Mignone; la notizia poi rimbalzò sui settimanali Annabella e Oggi con ampi servizi, forse un po' romanzati.

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