«Ecco perché la vita di Mattia andava difesa»

Il teologo Lintner spiega perché la Chiesa è sempre e comunque contraria all’eutanasia


di Antonella Mattioli


BOLZANO. La morte dopo sette anni di coma vigile di Mattia Fiori, 31 anni bolzanino, e quella, avvenuta solo pochi giorni prima di Brittany Maynard, 29 anni americana, affetta da un cancro al cervello in forma terminale: due storie diverse che hanno riacceso il dibattito su un tema delicato com’è quello della eutanasia. I giovani operatori che hanno assistito Mattia, nella lettera di saluto all’amico-paziente, al termine di una lunga esperienza accanto a lui e agli altri sedici ospiti della 5ª sezione di Firmian, sono giunti alla conclusione che “la vita vada difesa, preservata e rispettata fino in fondo, finché il cuore batte e il respiro alimenta anche un flebile soffio di vita”.

Ma che  senso ha prolungare la vita di chi è condannato in un letto, perché il cervello si è spento per sempre? Lo abbiamo chiesto a padre Martin Lintner, professore di teologia morale allo Studio Teologico Accademico di Bressanone, e nipote di Luis Lintner, missionario ucciso in Brasile nel 2002.

«È importante distinguere lo stato vegetativo da altre forme di malattie cerebrali che comportano la morte. Lo stato vegetativo non significa che il cervello si è spento per sempre, cioè non si tratta della morte cerebrale totale. Bisogna anche distinguere vari gradi di stato vegetativo. Oggi esistono delle terapie, per esempio con la musica, che riescono a toccare un paziente con delle lesioni cerebrali gravi. Starei attento a parlare di un paziente in stato vegetativo come di un uomo il cui “cervello si è spento per sempre”. Un’altra cosa è il coma vegetativo in cui la lesione cerebrale non è di per sé mortale. Non parlerei in questo caso di “prolungare la vita”, perché questo significa non lasciar morire una persona. Significa piuttosto “mantenere in vita” soprattutto attraverso la nutrizione artificiale e le cure quotidiane delle quali ha bisogno un paziente in questa situazione difficile e particolare. Tuttavia rimane il fatto che ogni singolo caso come quello di Mattia è un destino tragico e difficile per tutti, familiari e amici».

La Chiesa è contro l'accanimento terapeutico ma anche contro l'eutanasia: qual è il confine?

Accanimento terapeutico significa che non si lascia morire una persona, cercando di fare di tutto per prolungare una vita che ormai è arrivata al termine. Nel caso di persone in stato vegetativo l’accanimento terapeutico non consiste nell’alimentazione e nelle cure quotidiane, ma potrebbe consistere nel fatto che si decide di fare una terapia nel caso di complicazioni che ci possono essere, per esempio una polmonite che potrebbe essere mortale. In questo caso si potrebbe decidere di non curare la polmonite e di permettere al paziente di morire. La causa della morte non sarebbe allora la lesione cerebrale, ma la polmonite. L’eutanasia invece viene intesa come un’azione che mira direttamente alla morte di una persona. La chiesa è contro l’eutanasia perché è contro la uccisione voluta di un paziente. Bisogna distinguere il lasciar morire una persona dall’ucciderla».

L'assistenza di persone in coma vigile è in realtà un dolore che si rinnova ogni giorno per le famiglie: di questo la Chiesa non tiene conto?

«Certo, che la Chiesa ne tiene conto. La domanda però è sbagliata. Vorrei spiegarmi attraverso una contro-domanda: sarebbe più umano porre fine a questo dolore, che indiscutibilmente esiste, attraverso l’uccisione di queste persone?»

Nessuno di noi - se non probabilmente rare eccezioni - vorrebbe vedersi prolungare quella che in realtà è una “non vita”.

«Ognuno ha il diritto di dire: “Se la mia vita arriva alla fine, se entro nella fase terminale di una malattia, allora per favore non prolungate la mia vita attraverso terapie che non hanno più un effetto di miglioramento”. Ma ripeto: bisogna distinguere se la vita viene prolungata perché non si permette ad una persona di morire, cioè si curano quelle lesioni che senza cura sarebbero mortali, oppure se le lesioni di per sé non sono mortali come nel caso dello stato vegetativo. Lo so che questa differenza è difficile da capire, ma secondo me bisogna farla. Un'altra questione molto delicata riguarda la definizione di “non vita”. Sicuramente manca una qualità di vita che normalmente attribuiamo a una esistenza cosciente, ma non possiamo dire che una vita sia “non vita” quando non corrisponde ai criteri di noi persone sane ossia coscienti».

Il Papa, pochi giorni fa, incontrando i medici cattolici ha detto che l'eutanasia è “espressione di falsa compassione”, ma perché non si ammette il diritto di ogni persona di morire con dignità?

«Questo diritto esiste e la Chiesa lo ribadisce. Morire con dignità significa tutelare la dignità del morente, non costringerlo a vivere, permettergli di morire con l’assistenza umana, con le cure palliative, ma non vuol dire uccidere una persona. Ribadisco la differenza tra lasciar morire e uccidere, tra rinunciare all’accanimento terapeutico e eutanasia diretta. Ma vorrei sottolineare di nuovo l’aspetto che ogni situazione è un dramma di persone concrete, dei pazienti e dei loro familiari. Hanno bisogno di aiuto, di vicinanza, di sostegno».

Se per La Chiesa la morte non è la fine di tutto, ma l'inizio di una nuova vita, perché tenere in vita anche chi, se potesse scegliere, chiederebbe di potersene andare?

«È vero, secondo la fede cristiana la morte è la soglia verso il compimento della vita. Nella prospettiva cristiana la vita terrestre è un dono di Dio, che ha un valore alto, tanto alto che é sempre meglio essere vivi che morti. La domanda difficile è questa: dal diritto di vita deriva anche un dovere di vivere? Molto probabilmente no. Se una persona veramente sceglie con piena libertà e coscienza di non volere più vivere, allora troverà un modo di togliersi la vita. Ma questo non significa un diritto di essere uccisa, cioé un diritto al suicidio assistito oppure all'eutanasia diretta. Dal modo in cui è posta la sua domanda, la posizione della chiesa potrebbe risultare quasi una contraddizione, ma credo piuttosto che la chiesa cerchi di tutelare la vita terrestre e allo stesso momento di aprire la speranza, nel senso che la morte non è la fine».

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