il caso

Flick: «Toponimi, basta prevaricazioni»

L’ex ministro (già presidente della Consulta) prende posizione contro l’intesa Svp-Pd: «Sbagliato riaprire vecchie ferite»


di Davide Pasquali


BOLZANO. Dopo l’Accademia della Crusca e l’appello trasversale di un terzo del Senato, per difendere la toponomastica italiana scende in campo anche il giurista Giovanni Maria Flick, ex presidente della Corte costituzionale e ministro della giustizia nel primo governo Prodi. La toponomastica? «È un problema ma fino a un certo punto», ha dichiarato ieri a Rainews24. Ci sono due ombrelli che garantiscono il bilinguismo in Alto Adige, ha ricordato.

«Il primo è lo statuto regionale che prevede l’utilizzo delle due lingue nella toponomastica e nell’insegnamento e la protezione dell’identità culturale legata alla lingua. Il secondo è l’accordo Degasperi-Gruber del 1946, che dà un ombrello internazionale a questo tipo di protezione». Flick crede che se la norma in discussione alla commissione dei Sei dovesse passare «potrà eventualmente essere oggetto di verifica da parte della Consulta. Se il governo deciderà di impugnarla».

Secondo l’ex presidente, però, non è questo il problema. «Le vicende del bilinguismo sono le conseguenze, gli ultimi strascichi di una situazione che ha visto per vent’anni o poco più una vicenda kafkiana per l’Alto Adige». Nel 2019, «celebreremo i 100 anni dal trattato di Saint Germain, il trattato di pace tra l’Austria e l’Italia, dopo la prima guerra mondiale che venne persa dall’Austria. E nel 2018 celebreremo la fine della prima guerra mondiale. L’Alto Adige è nato allora, e ha avuto più di vent’anni di continui terremoti, di continue oscillazioni, di continui passaggi nell’uno o nell’altro senso».

Prima «la fascistizzazione obbligata, poi l’italianizzazione obbligata attraverso la soppressione dei nomi tedeschi, del tedesco, delle tradizioni, in modo da italianizzare a forza. Poi la terza fase: il tentativo di industrializzazione di Bolzano per risolvere la situazione in tal modo». Infine la quarta fase, la guerra. «Nella quale, dopo aver posto gli altoatesini nella situazione drammatica di decidere tra l’optare se andarsene in Germania o rimanere in Italia con la cittadinanza italiana, operazione che finì male come finì male la seconda guerra mondiale, ci fu il ritorno di queste persone in Italia e una nuova fase di oltranzismo, questa volta da parte dei tedeschi, i quali ritenevano di dover pretendere l’autonomia se non addirittura il collegamento diretto con l’Austria».

Questa fu «una vicenda molto lunga e molto dolorosa per il Paese». Una trentina d'anni quasi «di guerriglia, di bombe ai tralicci, di uccisioni, di odii. Ne stiamo uscendo. Non mi pare che valga proprio la pena di ricominciare adesso un discorso di questo genere. Sarà importante, ma fino a un certo punto». Alla base del problema, per Flick, «c’è un senso di attaccamento alla propria terra che è certamente giustificato, ma che può diventare esasperato, anche se si ricollega a queste esperienze precedenti e a questa situazione che va cancellata, che va chiusa. Perché ormai abbiamo trovato un modo di convivenza più che valido e più che logico».

Flick capisce in questo momento «la preoccupazione della popolazione italiana di fronte al problema della proporzionale negli impieghi pubblici e di fronte al problema dell’attenuarsi del bilinguismo obbligato, però penso sempre che questo sia la conseguenza di vent'anni in cui si è ecceduto prima da una parte e poi si è rischiato di eccedere dall'altra». Non è il discorso tecnico di come rendere riconoscibili le località. Quello lo si supera sempre. «E' ciò che sta al di sotto che non mi piace e cioè l'esasperazione di un atteggiamento nel quale l'attaccamento alla mia terra finisce per essere non tanto e non solo rispetto della mia identità culturale, della mia provenienza, del mio paese, ma finisce per essere soprattutto una forma di esclusione degli altri».

L’Alto Adige «l’ha già vissuta troppe volte, prima contro i tedeschi e poi contro gli italiani, per permettersi il lusso, nel 2019, di rifarlo, a cento anni dalla sua nascita».













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