Gli anziani dimenticati del Cep

Collegamenti inesistenti, zero negozi, e una rampa ghiacciata di 300 scalini


Riccardo Valletti


BOLZANO. Trecento gradini. Questa è la distanza che separa Bolzano dalle case popolari del Cep. Un pugno di edifici degli anni sessanta, sopra Oltrisarco. A valle scorre via Claudia Augusta, che vista da quassù diventa piccola e trafficata di formichine. Trecento gradini per scendere a fare la spesa, passare in farmacia, o andare a messa; e altrettanti da scalare al ritorno, carichi di buste o leggeri dell'assoluzione del prete.

Quassù ci si arriva anche in auto, lungo la strada che porta a Castel Flavon; dietro una delle decine di curve c'è una piccola svolta a destra, la strada si chiama Passeggiata dei castani. Qui le case sono le stesse dell'ultimo giorno del cantiere che le ha costruite, i lampioni non ci sono ancora arrivati, e d'estate negli spazi vuoti del reticolo di terrazze e scale che collegano i caseggiati, ci si piantano i pomodori e il basilico. I residenti del Cep sono invecchiati insieme alle loro case; sempre gli stessi, allenati a scendere e risalire quella scala per così tanto tempo. Ma ora non ce la fanno più.

E se pure ce la facessero, sarebbe una guerra impari. Il primo tratto in alto della scala è un reperto archeologico: cemento e malta, e un corrimano di tubi innocenti, con gradini stretti e alti, che la minuta Monika Kittel risale portandosi il ginocchio allo stomaco. «Qui nessuno viene a gettare il sale quando si forma la brina, e la neve ce la spaliamo da soli, ma per fortuna quest'anno non abbiamo avuto grandi nevicate».

Oltre il ciglio scalcinato del budello di cemento, rattoppato alla bene e meglio da qualche volenteroso del circondario con una secchiata di cemento, ci sono ancora i resti di giochi per ragazzi di quando il Cep era abitato da giovani famiglie di operai. «Molte case ora sono vuote, la gente non ci viene a isolarsi dal mondo quassù - racconta energica la signora Kittel - e quelli che ancora sono inquilini dell'Ipes chiedono il trasferimento in città, perché per un anziano stare qui è come vivere in galera».

Lei le mura le ha comprate, e vorrebbe poterci vivere serenamente, «se vendessi ora non riuscirei comunque a comprare nulla giù in città». La questione dei collegamenti qui è una cosa seria. Solo due linee di autobus passano nelle vicinanze: il 7A per chi va in direzione di viale Trento e il 7B per andare in via Roma; sono i bus scolastici che raccolgono i pochi ragazzini del circondario per portarli nelle scuole di Oltrisarco dal lunedì al sabato. «Ne passa uno ogni mezzora - spiega l'anziana - e per andare a prenderlo bisogna camminare per circa un chilometro», sacrificato ma ancora fattibile.

«La domenica invece passa solo il 14, che fa il giro delle funivie, uno ogni ora». Troppo. Nella vicina parrocchia di San Paolo il prete è invecchiato e nessuno dice più messa, e allora si scende a piedi fino al Santissimo Rosario, come cinquant'anni fa. «Il problema è anche il rientro, l'ultima corsa alle sette e mezza significa che non si può nemmeno andare a teatro o a fare due passi in centro». Si resta chiusi in casa, com'è successo alla coppia di anziani Marescalco. «Da quando ho riconsegnato la patente - lamenta la moglie Maria, 82 anni e una vita da dipendente comunale - questa casa si è trasformata in una galera».

Il marito Giuseppe è invalido e non riesce a stare in piedi troppo a lungo, senza auto è Maria che spinge la carrozzina in salita e la tiene in discesa. «Non ce la faccio più - si sfoga Maria - prima facevamo delle belle passeggiate sul Talvera, ora non possiamo uscire dal vialetto di casa».Per tornare alla vitalità di un tempo basterebbe così poco. «Qui non resta più nemmeno una latteria o una farmacia, e per qualunque necessità dobbiamo andare a valle, se ci fossero più servizi forse altri sarebbero invogliati a comperare qui». Al Comune poche elementari richieste, un minimo di manutenzione su quella scala impresentabile, magari illuminandola e mettendola in sicurezza, e qualche corsa di bus in più la domenica.













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