Gli artigiani: «A Roma ci guardano male»

Corrarati (Cna): se ci considerano privilegiati significa che qualcosa non ha funzionato nel modo di porsi della Provincia


di Paolo Campostrini


BOLZANO. Per Claudio Corrarati, che occupa la trincea della prima linea di fronte davanti alla crisi con le pattuglie delle sue piccole imprese, le cose sono cambiate da quando è entrato nel direttivo nazionale Cna: «Adesso vado a Roma e i miei amici delle altre regioni mi guardano di sbieco. Facile per voi - mi dicono - sempre pieni di contributi provinciali. E noi invece a darci da fare sul mercato...». Ecco, questa idea che autonomia vuol dire denaro facile e imprese protette, al presidente della Cna altoatesina va di traverso: «Il valore del nostro lavoro viene ridotto in quanto considerato drogato dai privilegi. Ma quali privilegi? Qui abbiamo ancora a che fare coi pregiudizi etnici anche in economia ad esempio. Ecco perché se l'autonomia si sente provvisoria forse è il caso di cavalcare bene questa opportunità. L'autonomia del chiedere oggi deve essere sostituita da quello del "saper ben fare" e del saperlo bene illustrare. Anche in politica ci vorrebbe più marketing».

Solo immagine o anche sostanza?

«Tutte e due. Ma se ci considerano ancora privilegiati vuol dire che qualcosa non ha funzionato nei rapporti con l'esterno».

Parla di politica o di economia?

«Di economia. Di lavoro. E di noi. L'abitudine al contributo autonomo sta rischiando di atrofizzare la capacità delle imprese vitali di mettersi in gioco con gli altri territori nazionali. Mi spiego: siamo abituati ad una resa quasi sempre e solo mirata ad un beneficio personalizzato, ad un confronto dentro i nostri confini e questo non aiuta a migliorare».

Una politica che chiude e chiede protezione, vuol dire, oggi non fa più bene neppure alle aziende?

«È così. Sono cambiati i tempi. Pacchetto o no, avremo tutti sempre più a che fare con la concorrenza nazionale e la globalizzazione. Far finta di nulla, continuare a chiedere aiuti che poi non arrivano ci vizia, non ci fa diventare agili. Per questo penso che il paragone ora sia un valore positivo. Va ricercato e non dobbiamo averne paura. Anzi, è la chiave per sopravvivere e abituarci a tempi ancora più complicati».

Prima chiedevate aiuti adesso chiedete aperture?

«Oddio, una certa attenzione alle imprese è indispensabile. Tuttavia le piccole imprese, ma anche le grandi che hanno più margini di investimento, dovrebbero diventare uno dei pilastri su cui si possa appoggiare una vera capacità di essere un Alto Adige aperto e inclusivo. Se è questa l'immagine che riesce a dare di se la provincia, non essere più schiacciata dentro una percezione di soli privilegi, ecco che anche l'autonomia può diventare più transitabile, suscitare meno antipatie e reazioni negative. Perché la verità è che noi sappiamo produrre vere eccellenze e con queste affrontare il mercato nazionale con coraggio».

E la protezione dai concorrenti esterni così spesso invocata?

«Sbagliata. Un conto è l'attenzione che occorre avere nei confronti delle nostre aziende, nel senso di farle comunque partecipare per una sorta di equilibrio sociale territoriale. Un altro è alzare barriere. Penso a Benko o a altri che verranno. Gli investimenti esterni sono ossigeno proprio per le nostre piccole e medie imprese. Chi porta lavoro non va più visto come un nemico».

Proposte?

«Immagino tre direttrici. Rendere uniforme il mercato interno abbattendo ogni muro di natura etnica. Se oggi abbiamo aperto e depotenziato i monumenti, questo passaggio deve essere compiuto anche dal mondo economico creando pari opportunità tra aziende. Poi accrescere l'aggregazione sociale e politica e infine pensare più europeo utilizzando proprio quelle esperienze maturate in autonomia per quell'interscambio culturale che ci ha fatto crescere come territorio».

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