Gli operai costretti a diventare bolzanini per non perdere il lavoro


Luca Fregona


BOLZANO. Francesco De Meo, 48 anni, 22 di fabbrica. Angelo Giusto, 49 anni, 22 di fabbrica. Oreste Ciccone, 32 anni, 8 di fabbrica. Operai dello stabilimento Irisbus Iveco di Flumeri, provincia di Avellino. Novecentoquaranta chilometri da Bolzano. Aristocrazia operaia: 800 lavoratori specializzati che costruivano bus urbani ecologici, tecnologicamente avanzatissimi. Gli unici a saperli fare in Italia. Tra i pochi in Europa. Il 20 giugno scorso l'azienda li ha chiamati dopo un anno di cassa integrazione seguito alla crisi delle commesse e alla decisione di vendere lo stabilimento. «Se volete c'è per voi un posto all'Iveco di Bolzano. Almeno per sei mesi». Dai bus ai blindati. Dall'Irpinia al profondo Nord. Prendere o lasciare. In 27 hanno accettato. Il giorno dopo erano già in tuta ad avvitare bulloni in via Volta. «Stare a casa senza fare niente ti uccide. Saremmo andati fino in Nuova Caledonia pur di riavere un lavoro e la nostra dignità». De Meo, Ciccone e Giusto parlano per tutti i "ventisette". «Non avevamo scelta. Ci hanno messo una pistola alla tempia. Ci hanno detto che saremmo ritornati, che le cose si sarebbero messe a posto. Ma dieci giorni dopo che eravamo arrivati a Bolzano, abbiamo saputo che l'Iveco cede lo stabilimento». Il mondo è cambiato. La sicurezza non esiste più, la flessibilità, pardon la "delocalizzazione", è un ventaglio che si apre e chiude spostando uomini e destini. «Ci siamo fatti un anno di cassa integrazione a rotazione - racconta De Meo -. E siccome di commesse non ce n'erano, si è lavorato comunque pochissimo». Un anno al 58% della busta paga: 750 euro netti al mese. «Molti di noi hanno fatto fuori i risparmi. Oppure hanno dovuto chiedere soldi in prestito a banche e parenti. Chi aveva un mutuo si è venduto la casa». Questi operai che pensavano di avere un posto sicuro e garantito, che erano orgogliosi di appartenere ad un gruppo solido, fieri di fare con le loro mani qualcosa di importante, non riescono ancora a capire lo tsunami che li ha travolti. «Non viviamo sulla luna. Sappiamo che c'è la crisi. Ma ad affondarci è stata anche la decisione del governo Belrusconi di far saltare il finanziamento per l'acquisto dei bus ecologici. E questo nonostante l'Italia sia un Paese sotto infrazione Ue perché utilizza un parco mezzi vecchio, e rischi pure una multa da due milioni di euro». La cosa che fanno più fatica a comprendere è come mai l'azienda, che nel 2010 ha ristrutturato lo stabilimento spendendo 9 milioni di euro, poi abbia deciso di vendere. Il preliminare è stato già firmato. L'acquirente è l'imprenditore Massimo Di Risio, fondatore del gruppo Dr, un'altra impresa che gravita nell'universo Fiat e produce Suv italo-cinesi. «Ha già detto che di 800 che siamo, ne terrà al massimo 250». L'Irisbus-Iveco ha promesso che non lascerà nessuno a casa. Ma "distaccando" gli operai. «Spedendoci in ogni angolo del Paese». A loro è toccata Bolzano. Contratto di sei mesi. Paga da metalmeccanico più diaria di 90 euro al giorno. Vivono in un residence di Andriano, dove sborsano oltre 500 euro a testa. «I colleghi ci sfottono, quasi fossimo in villeggiatura perché prendiamo un rimborso per la trasferta e viviamo in mezzo ai meli...», dicono amari. Ma non c'è niente da ridere. «Con quei soldi manteniamo noi qui, e le nostre famiglie giù. Poi dobbiamo rimetterci in sesto dopo un anno di cassa integrazione. La cosa più grave è che non sappiamo che sarà di noi». Il contratto all'Iveco di Bolzano ha il timer puntato sul 30 dicembre. «Ma se Irisbus e Di Risio non concludono entro settembre, rischiamo di essere a spasso dal primo ottobre. Se Irisbus chiude senza vendere, Iveco Bolzano non ha più nessun obbligo a tenerci. A meno che...». A meno che? «A meno che non accettiamo di trasferirci qui per sempre. La proposta ci è stata fatta»."Distaccati" per sempre a 50 anni. Quella parola, "distaccati", ronza nelle loro teste come un mantra maledetto. «Lessico da manager per farci ingoiare la pillola». Che significa lasciare casa, famiglia, affetti, la vita di sempre. Pendolari da 940 chilometri a botta. Sarebbero anche pronti a farlo. Ma hanno fatto due conti. «Noi guadagniamo 1.200, 1.300 euro al mese al massimo. A Bolzano la vita costa tantissimo, gli affitti sono proibitivi. Come facciamo a mantenere noi e le nostre famiglie ad Avellino?». La maggior parte è intenzionata a tornare giù. L'unica speranza è essere tra i 250 «salvati» che - forse - avranno ancora un posto. «Per tutti gli altri è la fine. L'azienda dirà di averci dato l'opportunità di un lavoro a Bolzano e che noi l'abbiamo rifiutata». La pistola alla tempia. «In Irpinia non c'è niente. L'Irisbus era l'unica realtà produttiva che garantiva occupazione. Con l'indotto dava da mangiare a duemila famiglie. Questa chiusura avrà un costo sociale altissimo». Combattono gli operai costretti a diventare bolzanini, e combattono i loro compagni rimasti a Flumeri. «Presidiano i cancelli. Noi siamo con loro. Ma mastichiamo amaro quando vediamo che a livello nazionale nessuno dice niente. Chiude una fabbrica con 800 operai, e nessuno vuole raccontarlo. Perché?». L'unico ad occuparsi di loro è stato il Papa. «Sono vicino agli operai della Irisbus», ha detto dopo l'Angelus domenicale. «Ma i tiggì hanno tagliato il passaggio. Si vede che non facciamo notizia». l.fregona@altoadige.it













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