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I rifugiati: «Non toglieteci il wi-fi È l’unica cosa che ci rimane»

BOLZANO. Omar viene qui ogni giorno, seduto sulla panchina di cemento, di fronte alla facciata di vetro e acciaio del Museion, scorre velocemente la tastiera del cellulare alla ricerca dei suo amici...



BOLZANO. Omar viene qui ogni giorno, seduto sulla panchina di cemento, di fronte alla facciata di vetro e acciaio del Museion, scorre velocemente la tastiera del cellulare alla ricerca dei suo amici sparsi per il mondo o quelli rimasti in Gahna. Poco più in là, due ragazzi del Pakistan avvolti in pesanti giacconi alzano per un attimo lo sguardo sui primi freddi della città, dove forse non hanno scelto di rimanere impigliati, e dove non immaginavano montagne così piene di alberi: da loro le montagne sono spoglie, brulle. Intorno altri ragazzi ripiegati nelle proprie chat, in conversazioni importanti con parenti e amici dall’altra parte del mondo. A decine, ogni giorno, si riversano in questo angolo della città per connettersi attraverso il wi-fi libero con le persone che hanno lasciato o concoloro che speravano di raggiungere, al di là delle Alpi. Famala è senegalese, suo padre vive in Francia e lui sperava di poterlo raggiungere. Ora è ospite dell’Hotel Alpi, ha fatto la sua richiesta d’asilo da sei mesi, non sa se verrà accettata. La sua mattina inizia presto, alle sette, non riesce a dormire tanto perché il riposo non gli manca. Nel suo paese era autista, qui però non può lavorare, nessun richiedente asilo può farlo, perché non ha i documenti in regola per essere assunto. A Famala non resta che fare l’ennesimo giro in città, dare un’occhiata qui al Museion per vedere se c’è qualche amico, ma oggi il tempo non è bello, meglio tornare all’Hotel. Abdoulaye (nome di fantasia per proteggere la sua identità) è fuggito dal suo paese, il Gambia, dopo essere evaso di prigione. C’è finito dopo che il pulmino che guidava si è ribaltato dentro un buco enorme in mezzo alla strada, una persona, tra le quindici che trasportava, è morta. Da tre mesi vive all’Hotel Alpi in una stanza per due. Prima Abdoulaye andava al parco Premstaller per connettersi con il telefonino e parlare con sua madre e i fratelli, ma da quando hanno tolto il wi-fi non ci va più. Al Museion però continua a venire, lì il wi-fi c’è ancora. «Qui il segnale è buono, anzi ottimo». Dice quasi con rassegnazione Christian Pfeifer, il gestore del bar del museo mentre indica, fuori dalla vetrata, una fila di teste abbasse sui display con le cuffiette alle orecchie. «Alcuni giorni se ne contano settanta, ottanta, molti clienti non vengono più perché non si sentono a loro agio». Pfeifer precisa che nessuno dei ragazzi chiede l’elemosina o importuna i clienti, ma nonostante ciò, l’assembramento rappresenta un problema. La sua, però, non è una questione di razzismo: «Sarebbe lo stesso se fossero ragazzi di qui, quando settanta ottanta persone affollano per tutto il giorno il passage, ascoltando musica e parlando ad alta voce, è normale che i clienti si sentano disturbati». Togliere il wi-fi sarebbe una soluzione? «Quanto meno limitarlo, mettere una password. Il problema è che sono in tanti». L’attività, secondo Pfeier, ne ha risentito:«Dall’inizio dell’anno, il fatturato è calato e molta gente non si ferma più». E il Museion che dice? «Non c’è stata data nessuna risposta. Alla fine dell’anno, quando ci scadrà il contratto, non parteciperemo alla nuova gara di appalto». Per via dei rifugiati? «Non posso dire che sia la causa principale, ma anche per questo». Dal canto suo il Museion difende la scelta di mantenere le porte aperte ai ragazzi, che a volte si intrattengono anche dentro gli spazi espositivi. «È certamente una situazione complessa con la quale cerchiamo di convivere, ma non siamo noi a doverla gestre – dice la direttrice del museo, Letizia Ragaglia. Toglierete il wi-fi come è stato fatto al parco Premstaller? «Come istituzione, togliere la connessione libera sarebbe un gesto innaturale, così come chiudere le porte che sono pensate proprio per accogliere. Anzi – prosegue la Ragaglia – con alcuni di questi ragazzi stiamo sviluppando dei progetti». Il Museion, infatti, è stato anche teatro dell’esperimento musicale che ha aperto l’ultimo festival di Transart: «Ardadioungo». Un’ensemble musicale composta proprio dai ragazzi richiedenti asilo che solitamente frequentano le aree esterne del Museion, coordianta dal compositore Eduard Demetz. Idris è uno di loro, viene dal Senegal e suona le percussioni: «È un occasone per tenerci occupati e non pensare ai problemi che abbiamo e quelli che abbiamo affrontato per arrivare qui». Ardadioungo in lingua wolof significa «Hallo, Ciao, sono qui» che non a caso ricorda il convenzionale saluto telefonico. L’ensemble sarà presente anche oggi sul palco della manifestazione «Bolzano frontiera d’Europa», tra gli artisti di fama internazionale. (ab)













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