Il bambino arrivato in nave che oggi guida un impero

Le storie dei 400 albanesi sbarcati a Brindisi e portati a Monguelfo 25 anni fa


di Luca Fregona


BOLZANO. Vedete il bambino qui accanto che fa “V” di vittoria sporgendosi dal treno? Oggi è un giovane imprenditore a capo di un gruppo che fattura 20 milioni di euro all’anno. Il suo nome è Agron Shehaj. La foto è stata scattata da Guido Perini, all’epoca fotografo dell’Alto Adige esattamente 25 anni fa a Monguelfo. All’arrivo del treno che trasportava 400 albanesi fuggiti e approdati a Brindisi sulla nave della speranza, la “Legend”. Di quel viaggio in mare, ha un ricordo tutto sommato dolce. O come dice lui “non traumatico”. «Ero un ragazzino di 13 anni, mi sembrava tutto un’avventura. Ma quando guardavo mi padre negli occhi mi rendevo conto che per lui era stato un salto nel buio». Siri, il papà, gli è seduto accanto. È un uomo mite e gentile, col volto segnato di chi non ha avuto una giovinezza. «Non sapevo cosa ci aspettava - racconta -, ma sapevo che in Italia c’era la democrazia, e che non finivi in galera per quello che pensavi. Vedi, io sono nato e cresciuto sotto una dittatura feroce. L’Albania era un enorme campo di concentramento. Non avevamo libertà né benessere. Non potevo decidere che lavoro fare o in che città abitare. Era come vivere oggi in Corea del Nord. Appena puoi, scappi...». In Albania figli, nipoti, e pronipoti scontavano come una maledizione le “colpe” di padri, nonni e bisnonni. Se il nonno era stato anti-comunista o aveva osato criticare il dittatore Enver Hoxha, il destino era segnato. L’ascensore sociale esisteva ma solo verso il basso. È Agron a spiegarlo: «Mio nonno è morto in prigione. A mio padre è stato precluso tutto. Era marchiato a vita. Non ha potuto studiare. Voleva per noi quel futuro che a lui è stato negato». E allora, una mattina, con un mare forza otto, Siri carica moglie e figli sul mercantile “Legend” al porto di Durazzo. La nave dei profughi, dei fuggitivi verso l’Italia.

Era il 6 marzo 1991.

Una data incisa sulla pelle di Tritan Myftiu e Ardian Mezini. Loro sulla Legend sono saliti insieme. Amici inseparabili sin da bambini, nati e cresciuti a Tirana in famiglie che avevano visto i sorci verdi sotto il comunismo. Il nonno di Tritan aveva studiato in Italia negli anni Trenta. Quando Mussolini invade l’Albania, lui organizza un attentato per ammazzare il duce. Finì al confino con Pertini sull’isola di Ventotene. Paradossale: per il suo passato antifascista ma "italiano" venne poi perseguitato in Albania. «Mio nonno ogni sera mi faceva sentire alla radio i programmi della Rai. Sono cresciuto “bilingue”. E con il mito del Belpaese». Quando Tritan e Ardian decidono di scappare sono poco più che ventenni. «Vedevamo l’Occidente come lo sbocco naturale delle nostre vite. Appena si è aperta la porta abbiamo messo il piede dentro». Racconta Ardian: «La mattina del 6 marzo siamo partiti da Tirana. Quando siamo saliti sul treno, ci siamo voltati di spalle, per non far vedere le lacrime ai nostri genitori che ci salutavano. Ho pianto fino al porto di Durazzo. Lasciavamo tutto, l’unica forza che avevamo era la nostra determinazione». Alle 5 del pomeriggio riescono a salire sulla Legend. «Poco dopo la nave si è staccata dalla banchina per impedire ad altra gente di saltare su. Abbiamo dovuto aspettare altre 12 ore prima che salpasse». In tutto sono 27 mila le persone che, quel giorno, prendono d’assalto mercantili e imbarcazioni di ogni tipo. È un esodo biblico. «Eravamo stipati come sardine». Seimila persone su una vecchia carretta arrugginita che trasportava cemento. «Se trovavi un buco per accovacciarti dovevi stare attento perché appena ti alzavi per sgranchirti, qualcuno lo occupava ed eri costretto a stare in piedi». All’alba del 7 marzo la Legend lascia il porto. Myftiu e Mezini si sistemano vicino al fumaiolo. «Era la “business class”: potevamo scaldarci e sentivamo poco il mare». Scherza Myftiu, ma quel viaggio fu tutt’altro che tranquillo. Mare in tempesta, onde alte come palazzi, la nave che va su è giù e avanza a fatica. Gente che vomita, gente che piange, gente che prega e bestemmia. Dodici ore di inferno per coprire poche miglia. «Tutti avevamo paura. Ci siamo calmati solo quando abbiamo visto la costa italiana. Lì mi son detto: anche se affondiamo, siamo salvi». La “Legend” approda a Brindisi. Con il suo carico di uomini, donne e bambini diventa il simbolo della fuga degli albanesi. Il resto è storia: «La prima sera l’abbiamo passata in porto, poi ci hanno sistemato nelle scuole. Dormivamo sui banchi, ma eravamo al caldo. Ci avevano dato coperte e cibo. A noi sembrava l’Hilton. I pugliesi ci hanno accolti come fratelli». Dopo una settimana arriva un funzionario del ministero degli interni. «Ci dice che in stazione ci sono due treni che ci aspettano: uno per Torino, l’altro per Bolzano. E che possiamo scegliere quale dei due prendere». Mezini ha una sorella a Bolzano, quindi la scelta è semplice. Solo che: il treno per “Torino” in realtà è diretto a Susa; quello per “Bolzano” a Monguelfo. Il governo italiano ha deciso di “smistarli” in montagna, nelle caserme, lontano dalle città, in attesa di capire cosa fare. E così Tritan, Ardian, Siri con la moglie e i tre figli (e altre 400 persone), vengono fatti salire su un treno "Espresso" con un’unica fermata: Monguelfo. «Quando siamo passati per Bolzano e abbiamo visto che non si fermava, molti hanno iniziato a piangere. A Monguelfo nessuno voleva scendere. Per noi la neve e la montagna significavano povertà e disperazione». Ci pensa la polizia in assetto anti-sommossa a far cambiare loro idea. Tritan è uno dei pochi a parlare bene l’italiano. Si avvicina un poliziotto: «Digli - gli fa - che se non scendono, ci penso io». E fa ruotare il manganello. Messaggio ricevuto. «Noi due eravamo giovani e convinti che peggio dell’Albania non poteva essere - prosegue Ardian - . Ma ho visto i più anziani disorientati, terrorizzati». A Monguelfo però trovano un sindaco intelligente, Josef Pahl (fratello di Franz), una popolazione accogliente e un funzionario capace della Prefettura, Antonio Lampis (oggi dirigente della Provincia). I 400 vengono sistemati nelle caserme dismesse, organizzate alla perfezione dagli alpini. Non ci rimarranno molto. È gente abituata a lavorare sodo, che vuole subito ricostruirsi una vita. Ottengono tutti il permesso di soggiorno provvisorio che dà la possibilità di cercarsi un’occupazione. Myftu e Mezini sono i primi a lasciare Monguelfo. È il 15 aprile 1991. Myftiu trova lavoro come cameriere ai “Primi di Toni” in via Dalmazia. Mezini da Mattiazzo come giardiniere al Lido. È solo il primo passo. Oggi Mezini ha un’azienda che fa impianti elettrici. Myftiu è mediatore culturale e lavora con le strutture di assistenza ai “nuovi”profughi. Il lavoro è stato anche il primo obiettivo di Siri Shehaj: nel giro di poche settimane viene assunto come operaio alla Hafner di Bolzano. Iscrive subito i figli a scuola. «Quando siamo arrivati - racconta Agron - non sapevamo una parola d’italiano. Ma non è stato difficile impararlo. Dopo le medie, ho frequentato le Itc Battisti. Poi mi sono iscritto a Economia a Milano, dove mi sono laureato». Oggi Agron ha 38 anni. Dieci anni fa ha fondato una società che spazia dai servizi internet all’e-commerce, con tremila dipendenti e 20 milioni di fatturato. Lavora tra Milano, la Spagna e l’Albania. «Cosa sono oggi? Un italo-albanese contento della strada che ha fatto. E ringrazio mio padre per l’intuizione che ha avuto, portandoci via». Dice Ardian Mezini: «L’Italia è una seconda madre che ci ha accolti e amato come figli suoi. E per questo vi diciamo grazie».

(Queste e altre storie fino al 21 gennaio alla mostra “Quando approdarono gli albanesi” presso il centro Civico di piazza Nikoletti)













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